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2021
Tutta l’opera di Stefano Di Stasio appare nella sua evidenza pittorica come un decalogo di elementi traducibili e comprensibili. La visione dell’opera appare chiara e decifrabile, i meno avvezzi direbbero che “si capisce”. Poi, immediatamente dopo la presa globale della sua visione, la tentazione è quella di scorporare da essa ogni elemento pittorico e analizzarlo singolarmente, tradurlo in un alfabeto a noi comprensibile e secondariamente ricondurlo alla simbologia della nostra tradizione letteraria, religiosa e mitologica. Tali simboli, più o meno attuali, ne danno, oltre alla lettura formale ed estetica, anche una più profonda e meno evidente che si ricollega immediatamente alla nostra personale cultura ed esperienza.
Tutta la sua opera è informativa, dettagliata nei particolari, evidente nella rappresentazione. Eppure, trovandosi di fronte a questa evoluzione stilistica sempre coerente, si ha la tentazione di porsi nei suoi confronti come un archeologo di fronte ai geroglifici e, non avendo una stele di Rosetta a disposizione per la loro decifrazione, ci si illude di poter interpretare questi mondi, popolati di belle immagini, e dare loro un significato compiuto. Ora, si dovrebbe trovare una chiave interpretativa dell’intero corpus di opere che, da oltre quarant’anni, viene esposta nelle gallerie e nei musei.
Spaventa evidentemente l’analisi di ogni singola opera perché le simbologie contenute e le citazioni, più o meno evidenti, sono troppe per poterne dare una lettura coerente e, più ci si introduce nella loro interpretazione, più ci si ritrova al punto di partenza. Appare, improvvisamente, tutto il corpus come un labirinto – che sia quello di Palmanova o quello di Franco Maria Ricci a Masone ispirato da Borges – edificato con una sola porta d’ingresso ma molteplici vie d’uscita.
Appare quindi evidente che l’interpretazione di ogni singola opera è fuorviante, priva di senso se non legata alla precedente e alla conseguente, in cui, come in un gioco di specchi, come in una catena, ogni opera si riflette e si inanella nell’altra, per trovare corrispondenze veritiere a una sciarada costruita sulle bugie. Ecco allora che la menzogna appare ancor più vera quando viene ribadita e reiterata. La sua costruzione è avvalorata da indizi che trovano riscontro solo in loro stessi e, non appena ci discostiamo, non troviamo più alcun appiglio per leggere e interpretare il dipinto che ci sta di fronte.
L’opera di Di Stasio è come un canto di Sirene, ammaliatore e seducente, ma pericoloso.
L’impulso, alla lettura formale e semantica della sua opera, è tentatore. La necessità di decrittare il significato dei dipinti è una necessità irrefrenabile, la “bella pittura” appare ancora a noi europei come un campo di indagine, dove forma e significato non sono scindibili. Eppure Di Stasio ci obbliga a porsi al di fuori di questo illusorio gioco di erudizione in cui simboli e forme “appaiono” ma “non sono”. Si dovrebbe quindi almeno tentare una lettura a più livelli: formale, simbolica, storica ed estetica.
Le sue opere appaiono all’inizio come composizioni rutilanti, i corpi e il contesto è vorticoso el’apparato stilistico è denso di prospettive sghembe e di corpi contorti, di panneggi che celano ed esaltano le membra e al tempo stesso ripartono la composizione pittorica in molti aneddoti concomitanti. Come in alcune opere della seconda metà del Quattrocento, tra Fiandre e Italia, la storia di santi, ma soprattutto quella di Cristo e contemporaneamente scandita e composta, nell’esiguo spazio di una tavola o di una tela, in modo concomitante e simultaneo: una Via Crucis in cui Gesù si proietta simultaneamente in differenti episodi della sua stessa vita. Di Stasio attinge a piene mani dalla storia dell’arte, soprattutto quella italiana, fonte inesauribile e autogerminante ove il passato, il presente e il futuro sono sostantivi dal significato incomprensibile. Tutto è “adesso” e il prima e il dopo siamo noi, il “durante” è un’opera fermamente statica nella sua ieraticità atemporale e la sua percezione è un attimo di eternità.
(Andrea Busto)
Di fronte alle opere di Stefano Di Stasio nasce sempre in me un’emozione. La sua pittura è vibrante e forte. Si ha la sensazione di essere trasportati in una dimensione fenomenologica parallela, ma anche psicologica e profondamente vera, senza inganni e nascondigli. La sua è una pittura che mette a nudo il nostro io più profondo e che ci accompagna a rivedere e rileggere tutta la storia dell’arte così come l’abbiamo studiata sui banchi di scuola. Mi è capitato di parlare di “paesaggi dell’anima”, dai quali affiora una conoscenza profonda della cultura classica, fatta di simboli e significati allegorici, a volte sorprendenti, come se l’artista, attraverso il lento fluire delle sapienti pennellate, ci svelasse il teatro della vita attraverso un intreccio di quinte, di piani contrapposti e intrecciati, di simultanea rappresentazione dello spazio e del tempo, in cui passato e presente sembrano confondersi nella visione notturna di un sogno che prende corpo sulla tela.
Dopo la sua partecipazione a due Biennali di Venezia e a numerose Quadriennali di Roma, dopo tante esperienze nel campo della ricerca che lo hanno visto protagonista in mostre importanti, possiamo parlare di una lunga carriera sulla quale Di Stasio non si è mai adagiato.
Tra passato e presente si fonda il concetto dell’artista che l’arte è una forza “inattuale”, secondo le parole di Pier Paolo Pasolini, concetto ripreso dal critico Maurizio Calvesi nella presentazione della mostra a Roma nel 1999, Stefano Di Stasio dal 1978 a oggi. Di Stasio parla di una nota stonata nel coro, a proposito dell’arte che non deve essere “attuale” ma trasversale e, quindi, in grado di dialogare con il mondo e con i mutamenti temporali.
Le parole “anacronismo” o “citazionismo”, dunque, sono usate per descrivere, non solo il ritorno alla pittura dopo la generale e diffusa esperienza del Concettuale storico protrattasi fino alla fine degli anni Settanta, ma anche e soprattutto per definire – e oggi possiamo dire “ingabbiare” – sensibilità e poetiche di una rappresentazione fuori dalle mode generate dalla cultura anglosassone, in cui l’esperienza iperrealista, esplosa durante gli anni Settanta, rappresenta la matrice più forte. In tale ambito culturale non sarebbe mai potuto nascere un filone citazionista autentico, senza il poderoso passato plurisecolare che appartiene all’Italia.
(Vittoria Coen)
Biografia
Stefano Di Stasio nasce a Napoli nel 1948, e si trasferisce a Roma con la famiglia nel 1950.
Dal 2000 vive e lavora tra Roma e Spoleto.
All’età di dodici anni, grazie alla madre che lo incontra in teatro, riesce a sottoporre una cartella di disegni a Giorgio de Chirico, nella sua casa di Piazza di Spagna. L’incontro con il maestro sarà fondamentale e dispensatore di buoni consigli. Dopo aver frequentato per un breve periodo l’Accademia di Belle Arti nella classe di Toti Scialoja, decide di proseguire gli studi da autodidatta.
I primi anni di esperienze pittoriche sono prevalentemente in ambito astratto e nel 1977-78 apre assieme ad alcuni amici uno spazio autogestito a Roma chiamato La Stanza. Qui sperimenta un’arte d’installazione extrapittorica, che inventa spazi animati da svariati oggetti, materiali, mobili artefatti, luci, frammenti di pittura e disegni murali. Ne La Stanza, tra gli elementi delle installazioni, espone nel 1978 un autoritratto a olio dal voluto sapore ottocentesco, come spiazzamento al gusto corrente, come gesto provocatore e d’inversione di rotta, rispetto a quella che ormai sembrava l’“accademizzazione” dell’avanguardia. Nello stesso anno espone un secondo autoritratto che viene notato da Plinio De Martiis, il quale lo invita a far parte della sua galleria La Tartaruga, dove espone in personali e collettive dedicate al nuovo ritorno alla pittura.
- Nel 1982 partecipa ad Aperto ‘82 alla Biennale di Venezia.
- Nel 1984 viene invitato da Maurizio Calvesi con una sala personale, ad Arte Allo Specchio, mostra centrale della Biennale di Venezia.
- Nel 1994 inizia la collaborazione con la galleria L’Attico di Fabio Sargentini, dove nello stesso anno espone in una personale e poi successivamente in varie collettive.
- Nel 1995 partecipa alla Biennale di Venezia con una sala personale nel padiglione centrale. Le gallerie che negli anni si sono occupati del suo lavoro, tra le altre, sono: La Tartaruga, Pio Monti, La Nuova Pesa, Gian Enzo Sperone, L’Attico, Il Polittico, A.A.M., Maniero, Studio Vigato, Alessandro Bagnai, Arts Event’s, Ambrosino e Andrea Arte. Tra il 2001 e il 2004 realizza un intero ciclo pittorico su storie francescane, per la nuova chiesa di Terni, S. Maria della Pace, progettata da Paolo Portoghesi.
Tra i musei nei quali ha esposto, si ricordano: Museo del Risorgimento a Roma (1997, 1999), Palaexpò a Roma (1992, 1999, 2013), Scuderie del Quirinale a Roma (2000), County Museum, Los Angeles, USA (1987), Museum of Modern Art, Ostenda, Belgio (2001), CIAC a Foligno (2009, 2014, 2015).