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Il Museo Ettore Fico programma la mostra Afrika Now da giovedì 8 marzo a domenica 30 giugno 2024 con cinque mostre personali di importanti artisti di origine africana e della Guadalupa già rappresentati in Europa da importanti gallerie internazionali: Bouvy Enkobo, Victor Fotso Nyie, Elladj Lincy Deloumeaux, Salifou Lindou e James Mishio.

Le cinque mostre vogliono offrire una panoramica e un focus sulle nuove generazioni che sviluppano una ricerca, soprattutto in campo figurativo, pittorico e scultoreo. Tutte le opere inedite sono presentate per la prima volta in un museo in Italia e la maggior parte di esse sono state create appositamente per questo
appuntamento.
Cinque volumi monografici verranno editati per l’occasione e racchiusi in un unico cofanetto anche se la loro esistenza sarà autonoma e indipendente dalle altre. Gli artisti invitati hanno come tema e poetica dominante nelle loro opere la figura umana e in particolare modo il ritratto. Spesso sono autoritratti in cui l’artista interpreta differenti personaggi, divenendo attore e protagonista dell’opera, ma anche paradigma di una realtà estendibile a tutta la comunità nera, sia che abiti in Africa, sia che abiti in Europa o in altri Paesi. Le opere sono tutte di grande formato, come a voler asserire una presenza ancora più forte, socialmente e politicamente, e propongono la vita reale secondo le poetiche personali dell’artista, intimamente legate alla realtà vissuta nella sua quotidianità.

Problemi politici, legami famigliari, presenze sociali, affetti e storie comuni, vengono illustrati con un peculiare tratto pittorico e un’autonomia estetica che, pur partendo da stilemi ormai consolidati internazionalmente, risultano inconfondibilmente legati al Grande Continente e alla realtà nera.
Le opere pittoriche e quelle scultoree sono pregne di materia, anche la più sublime come l’oro, in patina, o l’argento, evocato spesso con la carta stagnola e le lamiere. Tratti energici e materici si sviluppano e si accavallano sulle opere per dare ancora più forza al tratto e al segno per ribadire come il gesto e la presenza dell’artista siano parte integrante dell’opera, una sorta di estensione del pensiero attraverso la postura del corpo, la gestualità del braccio e, infine, la forza della mano che utilizza il pennello e la spatola come protesi della dinamicità creativa.

I cinque artisti sono diversi e differenti ma appaiono come allievi o maestri della stessa scuola espressiva. Il continente africano e il continente europeo si sovrappongono e si mescolano fino a divenire altro, come per la scultura greca ellenistica che a Roma, nei secoli prima e dopo Cristo, trova nuova linfa e riscrive a modo proprio la storia dell’arte.
È evidente che gli artisti non hanno potuto fare a meno di nutrirsi di cultura internazionale e creare attraverso le influenze estetiche e formali occidentali, ma se rimandiamo la nostra memoria ai primi anni del Novecento, non possiamo fare a meno di pensare a Picasso e al Cubismo per trarre conclusioni simili.

Tutto il tessuto delle avanguardie storiche ha potuto rigenerarsi con l’estetica africana e ora le nuove generazioni compiono il percorso inverso, rigenerandosi attraverso la nostra cultura e proponendosi come programma nuovo per questo millennio.
Tutti gli artisti si fanno portatori di tematiche sociali, più o meno evidenti, perché, fondamentalmente, la problematica etnica non è ancora risolta, così come quella della coesistenza religiosa e della convivenza dei popoli. Eppure, in un terreno pressoché “neutrale” come quello dell’arte si potrebbero far coesistere culture differenti, etnie lontane e stili di vita e di pensiero anche opposti.
Il nostro compito è quello di far conoscere e veicolare verso il pubblico realtà che altrimenti non si conoscerebbero e non si incontrerebbero.

Alessandro Roma ha attivato un meccanismo compositivo ed estetico scevro da legami temporali. Le sue opere fluttuano in una dimensione in cui le date di realizzazione non sono di capitale importanza e appaiono sempre in bilico tra scultura, pittura e design, ammiccando a possibilita di molteplici appartenenze. Eppure, la loro collocazione può esistere solo nell’abito scultoreo e pittorico in quanto il loro utilizzo, nella quotidianità, risulterebbe impossibile.

Altrettante le esperienze e le estetiche a cui attinge senza però “saldarsi” a nessuna, trovando una collocazione autonoma nella storia dell’arte contemporanea. Soprattutto le ceramiche trovano un loro spazio preciso nel vastissimo panorama attuale dove è fra i pochi a determinare una propria estetica autonoma e riconoscibile. I suoi “vasi, soprattutto, si presentano ambiguamente e formalmente come oggetti destinati a un utilizzo domestico per poi risultare impossibili a ospitare altre forme viventi in quanto già stracolmi di vita interna. Questa sorta di ventre dell’oggetto, offerto allo sguardo dello spettatore risulta come un “antro” in cui gli organi pulsanti della vita appaiono in tutta la loro fulgida vitalità. Rami e foglie si intrecciano ad altre forme dai colori smaglianti e l’armonia dell’opera fa da eco a quella della natura vera.

“Ettore Fico – Dialoghi contemporanei. Un artista, un museo, una collezione” è stata espressamente concepita per gli spazi della Fondazione Bevilacqua La Masa in piazza San Marco a Venezia e anticipa i festeggiamenti dei 10 anni dell’apertura del MEF a Torino. I “dialoghi” avvengono fra le opere del Maestro e gli artisti contemporanei internazionali che il museo ospita nelle sue collezioni.
L’opera di Ettore Fico è rappresentata in Europa dalla galleria Maurizio Nobile (Bologna, Milano, Parigi), da oltre quarant’anni punto di riferimento internazionale per l’arte italiana dal XV al XX secolo. Bellezza, autenticità, qualità e rarità: questo è il credo che guida da sempre la galleria alla ricerca di opere e alla riscoperta di artisti con l’obiettivo di accrescere collezioni pubbliche e private.

La mostra si suddivide in 6 sezioni tematiche corrispondenti al numero delle stanze della sede della Fondazione veneziana. In ciascuna di esse il dialogo, fra le opere del Maestro e quelle degli artisti
contemporanei, riprende le tematiche che, da sempre e ancora oggi, sono allabase della creatività artistica: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?» poneva come quesiti agli spettatori Gauguin nel 1897 con il famoso dipinto dallo stesso titolo. Sono i quesiti sempre attuali per gli artisti e per tutti gli uomini che, attraverso l’arte, cercano di dare delle risposte alle grandi incognite dell’esistenza.
L’interpretazione, la decodificazione del mondo e la sua traduzione in immagini, consegnano una visione e una lettura personale ma anche universale che solo le opere d’arte riescono a trasmetterci diventando la chiave di lettura e la testimonianza del tempo in cui sono state realizzate.
Ettore Fico (1917-2004) ha attraversato un secolo di storia e con la sua arte ha toccato tangenzialmente il gusto e le correnti del secolo scorso, arrivando fino agli anni 2000 con una pittura fresca, vibrante e attuale. La sua poetica intimista, personale e autoriflessiva, costruita sulla quotidianità e sulla semplicità, conferma gli stili e le estetiche dei grandi maestri del Novecento da De Pisis a Morandi, da
Braque a Scipione di cui fu contemporaneo. Ma la sua visione va oltre, essendo libera e scevra dall’appartenenza a movimenti e a gruppi. La sua solitudine gli permise di “scivolare” tra le diverse correnti senza farsi fermare e intrappolare.

Oggi, artisti come Gerard Richter o Rudolf Stingel, possono passare dall’astrazione alla figurazione e viceversa, senza essere tacciati di incomprensibilità, di assenza di stile o, peggio, di vacuità. La ricerca di Fico è anticipatrice e simile, per libertà e indipendenza, a molti giovani contemporanei che sperimentano e indagano le tecniche senza l’ansia di appartenenza come fu invece per molti movimenti del
Novecento dal Futurismo al Surrealismo, dal Minimalismo all’Arte Povera fino alla Transavanguardia. Ricordiamo come Breton “epurò” a più riprese gli appartenenti al movimento, come Celant “blindò” il numero dei poveristi e come Bonito Oliva chiuse a cinque il numero degli artisti transavanguardisti.
I gruppi, i cenacoli, i movimenti sono stati funzionali nel passato per delimitare i campi d’azione e formare un “numero chiuso” di appartenenti, per ragioni di mercato e di affermazione, negando quella libertà espressiva fondamentale per la creatività artistica e per l’attuale fluidità dei percorsi intellettuali. Artisti come Giacomo Balla, Emilio Vedova o Mario Schifano hanno trasmigrato da un movimento all’altro, lasciando stili e riprendendoli senza porsi il problema del giudizio della critica. La loro filosofia era principio generativo della loro opera e lo stile, la tecnica e il tempo, conseguenti e propedeutici alla loro creatività.

Oggi rileggiamo tutto il Novecento in modo differente rispetto al passato più recente. Artisti dimenticati o subordinati ad altri sono stati riscoperti proprio nel secolo scorso o nel primo ventennio di questo nostro millennio, esempi su tutti sono Frida Kahlo, Salvo e Carol Rama, come del resto anche Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi.
Ettore Fico ha prodotto opere fin dalla sua primissima giovinezza e non ha mai smesso di interrogarsi su come fare pittura e su come essere contemporaneo al suo tempo. Non deve ingannare quindi la sua libertà di percorrere strade diverse senza negarsi il piacere della sperimentazione e senza definire il proprio ambito negandosi la possibilità di essere, nel ristrettissimo “terreno” pittorico, un artista
dai vastissimi orizzonti. Certo non è stato un militante, un concettuale “engagé”, un rivoluzionario da “rissa in galleria”, egli si è limitato, come Licini, Klee o Veronesi, a fare instancabilmente il ricercatore autentico e moralmente onesto per tutta la sua lunga vita.
Questa mostra vuole riportare nel giusto contesto la figura di Ettore Fico ponendolo in dialogo con giovani artisti che esprimono, attraverso le loro opere, sensibilità simili e parallele. Il dialogo che ne scaturisce afferma che l’arte è sempre attuale pur affrontando tematiche millenarie.

Maggi Hambling è nata a Sudbury nel Suffolk ed un’artista molto nota nel suo Paese mentre lo è meno in Italia. Hambling ha studiato East Anglian School of Painting and Drawing di Cedric Morris e Lett Haines, prima di frequentare le scuole d’arte di Ipswich (1962-64), Camberwell (1964-67) e Slade (1967-69).

Nel 1980 è stata invitata alla National Gallery di Londra come artista contemporaneo in residenza. La sue opere più conosciute sono i suoi Autoritratti e ritratti di figure note del suo tempo, tra cui il suo mentore, l’artista Lett Haines che morì nel 1978 e Francis Bacon. I ritratti vengono eseguiti con rapidi segni condensati, gestuali e stesi su uno sfondo bianco. All’interno di queste “turbolente” formazioni pittoriche, immagini più sciolte e astratte emanano una sincerità emotiva che scaturisce dal continuo impegno dell’artista con l’attualità della vita che trasmettono ambigui stati d’animo fra umorismo e dubbio, rabbia e gioia, vitalità e mortalità.

I più recenti dipinti (Edge), realizzati su tele verticali, ricordano la pittura cinese e i rotoli di carta dipinti a inchiostro, essi raffigurano montagne e distese polari attraverso audaci accumuli di indaco e bianco che suggeriscono contemporaneamente un deserto interiorepsicologico e un’ambientazione paesaggistica. Fra i suoi lavori più conosciuti ricordiamo la realizzazione del memoriale ad Oscar Wilde dal titolo A Conversation with Oscar Wilde che si trova a Londra a Trafalgar Square e The Scallop una scultura di oltre 4 metri dedicata a Benjamin Britten che si può osservare sulla spiaggia di Aldeburgh.

Nel 2020 desta polemiche la scultura dedicata alla “madre del femminismo” Mary Wollstonecraft, definita dalle femministe come una «decorazione di Natale da sito porno»; le femministe si sono inoltre chieste: «Si è mai vista una statua di Dickens con le palle di fuori?». Bee Rwolatt, la presidente della società promotrice della campagna per restituire «la presenza di Mary in forma fisica», ha cercato di difendere l’opera, ma con scarsi risultati: Emily Cockn ha commentato: «Finalmente un riconoscimento pubblico che le donne nel Diciottesimo secolo erano completamente nude ed estremamente piccole»; mentre Jojo Moyes ha ironizzato con «sarebbe stato carino commemorare Mary Wollstonecraft con i vestiti addosso: non si vedono molte statue di politici maschi senza mutande». La Hambling si è difesa sostenendo che «deve essere nuda perché i vestiti definiscono le persone. Per quanto mi riguarda, ha più o meno la forma che tutte vorremmo avere».

Maïmouna Guerresi (Vicenza, 1951) è un’artista multimediale italo-senegalese, che opera con la fotografia, la scultura, il video e le installazioni. Nel suo percorso artistico ha sviluppato una visione affascinante e introspettiva sulle molteplici prospettive della sua vita all’interno di due culture: europea e africana. Ha letteralmente collegato questi mondi e il suo impegno per la spiritualità sufi. Usando un linguaggio visivo ibrido, Maïmouna Guerresi comunica la bellezza della diversità culturale, mentre contempla le molte questioni relative alla vita contemporanea di una società multietnica. L’arte e la letteratura islamica forniscono una fonte inesauribile di ispirazione per il suo lavoro, con le loro rivelazioni mistiche, metafore, intuizioni, versetti sacri e poteri taumaturgici. Le sue opere riaffermano un’energia femminile universalmente riconoscibile che si traduce in evoluzione spirituale, mentre allo stesso tempo decontestualizza e decolonizza le varie idee stereotipate delle donne nel mondo islamico.

Le sue creazioni scultoree, quasi architettoniche, combinano i volti e i corpi dei soggetti con lo spazio circostante. Alcuni sembrano fluttuare, privi di corpo, mentre i loro veli celano un antro profondo e oscuro, come una rappresentazione simbolica del mistero. Guerresi presenta una prospettiva intima sulla spiritualità umana in relazione al misticismo, gettando una nuova luce sulla comunità e sull’anima, fortemente influenzata dalle tradizioni sufi in Senegal, Sudan e Marocco. Metafore ricorrenti come il latte, la luce, l’hijab e la natura creano una consapevolezza delle vitali qualità unificanti della spiritualità islamica. Le immagini sono narrazioni delicate con sequenze fluide, un apprezzamento dell’umanità condivisa oltre i confini: psicologici, culturali e politici. Il suo lavoro è rappresentato dalla galleria Mariane Ibrahim.

Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini, coniugata Verasis Asinari e storiograficamente nota come Contessa di Castiglione (Firenze, 23 marzo 1837 – Parigi, 28 novembre 1899), è stata una nobildonna e agente segreta italiana.
Cugina di Camillo Benso, conte di Cavour, fu considerata tra le donne più belle e affascinanti della sua epoca. La sua attività di spionaggio e diplomazia si sviluppò nel contesto di importanti avvenimenti
dell’epoca: il Congresso di Parigi del 1856, la seconda guerra d’indipendenza e le trattative di pace della guerra franco- prussiana. Per questa attività e per la sua indole anticonformista ebbe fra gli uomini
importanti dell’epoca numerosi amanti, fra cui l’imperatore di Francia Napoleone III.
Il Museo Ettore Fico è lieto di presentare la prima mostra italiana di una delle più grandi figure della storia della fotografia: la Contessa di Castiglione. Questa importante mostra personale comprende oltre cinquanta rari ritratti della contessa dal 1850 al 1890. Diretti e messi in scena dalla stessa Contessa e realizzati in collaborazione con il fotografo di studio Pierre-Louis Pierson, questi “autoritratti” sono alcune delle immagini più straordinarie della storia della fotografia, precursori della fotografia di moda e dell’autoritratto performativo. Oggi viviamo in un mondo di selfie e social media: un mondo Instagram di identità costruite, performance e travestimenti.
Ma prima di tutto questo, prima delle supermodelle e degli influencer – 150 anni fa – una delle figure più radicali del XIX secolo ha aperto la strada a nuove forme di fotografia di moda e concettuale: l’autofiction. In centinaia di ritratti prodotti in un periodo di decenni, la Contessa ha messo in scena scenari e interpretato ruoli diversi, per presentare personaggi e personalità diverse e per riflettere identità multiple, fluide e non fisse. Nonostante decenni di attività, le fotografie della Contessa sono incredibilmente rare in quanto sono state realizzate pochissime stampe che, in vita, aveva scelto di non divulgare.In effetti, le principali mostre del suo lavoro si sono svolte solo alla fine del XX secolo al Musée d’Orsay di Parigi nel 1999 e poi al Metropolitan Museum di New York nel 2000. La maggior parte
del suo lavoro è ora nella collezione del Metropolitan Museum di New York. La mostra presenta alcune delle immagini più famose della contessa, nonché una sua squisita fotografia dipinta, di recente scoperta, che sarà esposta per la prima volta.

La mostra comprende stampe d’epoca e stampe appositamente realizzate nel 1900 per il suo grande
ammiratore, il poeta simbolista Robert de Montesquiou, amico/nemico di Proust, e primo dandy della storia, che ha trascorso tredici anni della sua vita a scrivere la sua biografia della Contessa e pubblicata come La Divine Comtesse nel 1913. Questa è una mostra che ricollega la figura della Contessa alla città di Torino in cui ha vissuto molti anni, della sua vita come stretta collaboratrice del cugino il conte di Cavour e del re Vittorio Emanuele II per promuovere l’unita d’Italia in Francia. Divenuta l’amante di Napoleone III la Contessa oltre a essere stata una delle donne più desiderate del suo secolo, è stata anche un importantissimo “ingranaggio” per la riunificazione risorgimentale del nostro Paese. Pierre-
Louis Pierson è probabilmente il più “contemporaneo” di tutti i fotografi del diciannovesimo secolo in quanto “strumento” della volontà della Contessa al pari di altri al servizio di grandi artisti contemporanei come Armin Linke per Vanessa Beecroft. Egli si inserisce a pieno titolo nel novero degli artisti fotografi e pionieri della fotografia contemporanea come William Henry Fox Talbot, Roger Fenton, Julia Margaret Cameron, Charles Negre e Gustave le Gray, ma nessuno è stato più influente o rilevante, per i fotografi di oggi, come la Contessa di Castiglione. La Contessa è senza dubbio il fotografo più radicale e contemporaneo del diciannovesimo secolo. Oggi, la sua rilevanza è ovunque. Si trova all’inizio di una linea di autoritrattisti concettuali, performativi e inventivi come Claude Cahun, Francesca Woodman, Hannah Wilkie, Jo Spence, Sophie Calle, Gillian Wearing, Cindy Sherman e Tracey Emin, ed è fonte d’ispirazione per numerosi giovani artisti, tra cui Zanele Muholi e Heather Agyepong. L’opera è incredibilmente rara, il che rende questa un’importante opportunità espositiva tale da essere un evento imperdibile per Torino, per gli appassionati di fotografia storica e contemporanea e per gli amanti della moda e del costume. I ritratti provengono da tre periodi principali: 1856–57, 1861–67 e 1893–95 e
la mostra ci accompagna in un viaggio che va dalla Contessa nel fiore degli anni – vestita e feticizzata come la donna più bella della sua età, attraverso immagini in cui ha tentato di rivendicare i trionfi precedenti – a immagini tardive cariche di emozione che suggeriscono, non solo lo sbiadimento della sua bellezza, ma anche il trauma psicologico di non essere più desiderabile e ricercata. Dopo le maschere glamour delle sue prime fotografie, queste strazianti immagini tardive e successive forniscono un ritratto devastante della perdita della bellezza e dell’inaccettabile invecchiamento di una “diva” ante-litteram.

Il percorso espositivo della mostra di “Nino Migliori Variazioni sulla fotografia” si snoda attraverso più di settanta anni di produzione artistica con un focus originale che raggruppa le opere in riferimento agli elementi determinanti nel processo creativo. Abbandonando la classica configurazione cronologica o la consueta divisione per approccio concettuale, sperimentale o realista, il percorso vuole evidenziare le infinite variazioni sulla fotografia realizzate da Nino Migliori grazie agli elementi del tempo, del segno e dello spazio.

Ciò che di straordinario c’è nella sua opera è la capacità di andare oltre le consuetudini del linguaggio fotografico per indagare ogni possibile variante e scardinare le formule del conosciuto. Immaginazione e curiosità lavorano tutt’oggi nella mente di Migliori, una mente forgiata nelle frequentazioni dell’arte informale e nell’epoca del passaggio dalla fotografia come documento alla fotografia come espressione artistica.
Ogni lavoro rappresenta un modo di sovvertire lo scibile fotografico e affrontare nuovi cammini, nuovi utilizzi, forzando fino all’impossibile ciò che lo strumento della fotografia porta in sé. Il concept della mostra vuol far entrare il visitatore nella mente poliedrica e rivoluzionaria di Migliori, accompagnandolo nel percorso espositivo come in una visita guidata tra i meandri del pensiero dell’artista.

LA MOSTRA

Tutti gli elementi primari rientrano comunque nel suo processo creativo. Nulla di nuovo nell’impianto di partenza, cioè: luce, spazio e tempo. Gli strumenti del mestiere canonici (fino a vent’anni fa)
cioè: pellicola, carta sensibile, sviluppo, fissaggio, acqua, calore. E, infine, la perizia tecnica di base, cioè: chimica, fisica, ingranditore, camera oscura, manualità, controllo. Gli ingredienti della ricetta sono sempre gli stessi, ma nelle mani di un rivoluzionario come Nino Migliori conducono a esiti sorprendenti. La combinazione dei fattori viene, infatti, elaborata da una mente sconfinata, che ascolta il sé in tutte le sue modulazioni, e recepisce gli stimoli esteriori come un inno alla vita.

E adesso pensate al laboratorio di un alchimista, ossessionato dal potenziale espressivo dei materiali che ha a disposizione, ma anche compulsivamente interessato alle varianti inesplorate del linguaggio che con questi coefficienti si può significare. La convergenza fra queste due pulsioni irrefrenabili spinge contro le pareti delle norme della fotografia, rompe i muri accademici, costruisce ponti, connette gli opposti, cerca l’impensabile. Associate, infine, tale sillogismo a un artista come Nino Migliori che, ineluttabilmente, aggiunge senso e incanto a tutto ciò che tocca. La sua immaginazione è nutrita dalla curiosità, la sua visione è fertilizzata dai saperi, il suo pensiero è audace e il suo spirito è accogliente.

Ecco che questa ricetta ora è tanto completa, quanto imprevedibile nei suoi esiti. L’unico modo per venirne a capo è osservare la produzione artistica che ne consegue. E lo faremo con riferimento alla mostra Variazioni sulla fotografia. Un titolo che vuole suggerire i tanti mondi esplorati da Nino Migliori e i sublimi risultati di settant’anni di ricerca.

Sue opere sono conservate presso: MamBo – Bologna; Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea – Torino; CSAC – Parma; Museo d’Arte Contemporanea Pecci – Prato; Galleria d’Arte Moderna – Roma; Calcografia Nazionale – Roma; MNAC – Barcellona; Museum of Modern Art – New York; Museum of Fine Arts – Houston; Museum of Fine Arts – Boston; Musée Reattu – Arles; SFMOMA – San Francisco, The Metropolitan Museum of Art e MOMA – New York; Maison Européenne de la Photographie – Parigi ed altre importanti collezioni pubbliche e private.

Franco Garelli fu amico e collaborò con Lucio Fontana, il gruppo Gutai, Pinot Gallizio, il Gruppo Cobra, lungo la linea di una ricerca internazionale. Presente alle Biennali di Venezia del 1948, 1954 e 1966 e alle Quadriennali di Roma del 1951-52 e del 1955-56, è stato, con la sua arte e i suoi contatti personali, un importantissimo ambasciatore della cultura italiana e torinese nel Mondo che culminò nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1966 con i “tubi in lamiera” tra Spazialismo, Pop Art e Arte Povera. Fu anche tra i protagonisti di Spoleto 1961 – Sculture nella città, uno fra i più importanti eventi per la scultura internazionale del XX secolo in Italia.

LA MOSTRA

Garelli è stato oggetto dell’attenzione dei maggiori critici del Novecento da Venturi a Crispolti, da Tapiè a Dorfles. Collaborò con i maggiori galleristi del suo tempo come Carlo Cardazzo (galleria del Cavallino a Venezia e galleria del Naviglio a Milano), con Palazzoli della galleria Blu di Milano, la galleria Stadler di Parigi, la Marta Jackson Gallery di New York.

Fu un intellettuale del Novecento, medico di guerra e di professione, insegnante di Anatomia presso l’Accademia Albertina di Torino fino a quando cominciò a dedicarsi sempre più ed esclusivamente alla propria arte, cercando in essa, con ostinazione, un proprio percorso lirico ed estetico, una personalità capace di entrare in empatia con le ricerche più vive della sua contemporaneità.

La sensibilità e l’impegno di medico uniti alla sensibilità artistica diedero vita a una produzione di opere in cui l’uomo e la sua “forma” sono sempre al centro dell’opera, ciò che fu definito da Crispolti “l’umanesimo tecnologico” di Garelli. Garelli muore a Torino nel 1973 a causa di una malattia degenerativa.

La mostra al Museo Fico a cura di Andrea Busto si pone come la prima in cui vengono proposte opere mai esposte precedentemente, frutto di una ricerca approfondita e pluridecennale, fra i collezionisti privati e pubblici. Il catalogo, a cura di Andrea Busto, è frutto di un’inedita campagna fotografica e di nuove e approfondite ricerche.

Nell’ambito della mostra sono previsti percorsi di approfondimento intorno ai monumenti pubblici realizzati da Garelli: dalla celebre cancellata in ferro della sede Rai al monumento ai Caduti di Beinasco. Il progetto espositivo porterà all’attenzione del pubblico e alla sua conoscenza un tesoro cittadino sconosciuto attraverso una mappa atta alla scoperta delle opere che Garelli ha realizzato sul territorio.

Il Museo Ettore Fico presenta Il vuoto addosso, la nuova performance di Ruben Montini con un testo a cura di Elsa Barbieri.

Sette anni dopo “Think of me, sometimes”, realizzata insieme all’ex compagno, l’artista tedesco Alexander Pohnert, Ruben Montini torna al Museo Ettore Fico con “Il vuoto addosso”, reenactment della precedente performance.

La nuova azione sarà un tentativo, estremo come è nella natura della sua pratica performativa, di ricostruire l’immagine di quell’abbraccio che nel 2015 l’aveva stretto fino allo sfinimento.

In bilico tra pittura e fotografia le opere di Patrizia Mussa, riportano il mezzo fotografico e la tecnica della coloritura a mano a una dimensione atemporale.

Il fare minuzioso e la tecnica della coloritura a mano a una dimensione atemporale, il fare minuzioso del riempimento degli spazi stampati con delicatissime sfumature di colori pastello, infondono nello spettatore uno straniamento che determina nella sua osservazione uno stacco dal presente per ricondurre il manufatto in una sfera atemporale e irreale.