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Marie-Claire Mitout ha soggiornato per oltre un mese in Piemonte dove ha realizzato le sue opere più recenti. In mostra sono esposte carte che ritraggono l’Abbazia di Vezzolano e la Sacra di San Michele, il Duomo di Asti e i giardini antistanti le Porte Palatine, il Museo Egizio e le colline del Monferrato e molti altri ancora. Al visitatore il piacere di scoprire la totalità delle opere e dei luoghi italiani e piemontesi ritratti durante questo personale, privato e romantico Viaggio in Italia.

Le dimensioni delle tempere di M-C Mitout possono trarre in inganno le persone che hanno intercettato la sua opera pittorica esclusivamente attraverso la riproduzione in cataloghi, riviste o internet. La grandiosità e la profondità dei paesaggi o degli interni, popolati di figure o disabitati, appaiono come imponenti affreschi in cui lo sguardo si perde, non soltanto per l’abissale prospettiva, ma anche per i dettagli che si dissolvono nello spazio naturale o descrivono minuziosamente le volumetrie architettoniche dei luoghi chiusi. I colori, in alcune vedute, si stemperano in un caleidoscopico arcobaleno dove tutte le possibilità delle sfumature dell’iride vengono attivate per trarre in inganno la retina su cui si fissano.

La naturalezza delle chiome degli alberi, le colline che degradano verso un punto lontano dissolvendosi nell’atmosfera, le costiere marine di tutte le latitudini, i particolari dei soggetti principali che, per la loro precisione, spostano l’orizzonte verso il cosmo infinito in un liquefarsi languido e nostalgico, cooperano nell’inganno che l’artista è determinata a perpetrare nei confronti dello spettatore, facendo sciogliere lo sguardo in misteriose dimensioni che, da un’opera all’altra, non vengono disvelate e ci pongono nella condizione di interrogarci sulla loro reale estensione. Questi luoghi immanenti e incommensurabili sono realizzati su carte che equivalgono al formato del frammento pittorico, sono perciò piccoli quadri o grandi miniature? La loro intensità e forza sono misurabili in centimetri quadrati? La grandezza, la potenza e l’importanza di un’opera è data dal suo perimetro?

Un po’ come nelle trentasei opere conosciute di Vermeer – il cui formato trascende ogni possibilità di raffronto qualitativo con quadri come la Ronda di notte di Rembrandt dove i personaggi vengono rappresentati nella dimensione pressoché reale – le opere della nostra artista – simili e interscambiabili, ma non sostituibili nel racconto processuale di una vita scandita da giorni, ore e minuti – si assommano l’una all’altra, in un unico formato definito dal classico e internazionale formato Uni, delineando un regesto incalcolabile come i pioli della scala di Gioacchino su cui ascendono gli angeli al cielo per mettere in comunicazione il divino con il terreno.
La misura di queste carte, sempre la stessa (21×29,7) si contestualizza immediatamente nell’ambito della serialità e della reiterazione peculiare agli scrittori minimalisti.
Ritengo importante insistere sulla dimensione del formato perché è la regolarità che rende conseguente la lettura delle pagine (l’una di seguito all’altra) di un libro (diario?), così le opere, pur essendo mescolate cronologicamente, si possono leggere linearmente perché prodotte con lo spirito dell’atemporalità dei racconti riuniti in un’antologia. La scelta minimalista di questa regola, ricompatta le differenti atmosfere estetiche e rappresentate nelle singole opere, “rilegandole” idealmente in un unico quaderno, come pagine di un “diario minimo”, talvolta aneddotico, che ripropone la sequenza delle pagine di un “journal” o quelle di un romanzo a puntate dalla trama avvincente e misteriosa.

La mostra Ettore Fico. Dialoghi contemporanei, dopo la tappa veneziana alla Fondazione Bevilacqua La Masa e quella al MACC di Calasetta, conclude il suo iter al Museo Ettore Fico per chiudere i festeggiamenti dei dieci anni dell’apertura del MEF a Torino.

Ettore Fico (1917-2004) ha attraversato un secolo di storia e con la sua arte ha toccato tangenzialmente il gusto e le correnti del secolo scorso, arrivando fino agli anni Duemila con una pittura fresca, vibrante e attuale. La sua poetica intimista, personale e autoriflessiva, costruita sulla quotidianità e sulla semplicità, conferma gli stili e le estetiche dei grandi maestri del Novecento da De Pisis a Morandi, da Braque a Scipione di cui fu contemporaneo. Ma la sua visione va oltre, essendo libera e scevra dall’appartenenza a movimenti e a gruppi.
La sua solitudine gli permise di “scivolare” tra le diverse correnti senza farsi fermare e intrappolare. Oggi, artisti come Gerard Richter o Rudolf Stingel, possono passare dall’astrazione alla figurazione e viceversa, senza essere tacciati di incomprensibilità, di assenza di stile o, peggio, di vacuità.

La ricerca di Fico è anticipatrice e simile, per libertà e indipendenza, a molti giovani contemporanei che sperimentano e indagano le tecniche senza l’ansia di appartenenza come fu invece per molti movimenti del Novecento dal Futurismo al Surrealismo, dal Minimalismo all’Arte Povera fino alla Transavanguardia.
Ettore Fico ha prodotto opere fin dalla sua primissima giovinezza e non ha mai smesso di interrogarsi su come fare pittura e su come essere contemporaneo al suo tempo. Non deve ingannare quindi la sua libertà di percorrere strade diverse, senza negarsi il piacere della sperimentazione e senza definire il proprio ambito concedendosi la possibilità di essere, nel ristrettissimo “terreno” pittorico, un artista dai vastissimi orizzonti. Certo non è stato un militante, un concettuale “engagé”, un rivoluzionario da “rissa in galleria”, egli si è limitato, come Licini, Klee o Veronesi, a fare instancabilmente il ricercatore autentico e moralmente onesto per tutta la sua lunga vita.

La mostra si suddivide in cinque sezioni (Periferie – Natura silente e Vanitas – Corpi – Luoghi e paesaggi – Astrazione) che affrontano la tematica esistenziale del «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?» riportando nel giusto contesto la figura di Ettore Fico e ponendolo in dialogo con giovani artisti che esprimono, attraverso le loro opere, sensibilità simili e parallele. Il confronto che ne scaturisce afferma che l’arte è sempre attuale pur affrontando tematiche millenarie.

Luigi Serralunga nasce a Torino il 26 ottobre 1880, da una famiglia benestante, appartenente alla borghesia torinese e legata all’amministrazione regia. Il ramo paterno della famiglia ha una lunga tradizione d’impiego presso la corte: il bisnonno Giuseppe Dalmazzo Serralunga fu tesoriere per i Savoia tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, mentre il nonno Luigi, cavaliere e avvocato, fu nominato esattore del Ministero delle Finanze reali nell’area di Pinerolo, nonché titolare delle rendite di una rivendita di sali e tabacchi presso Volvera. Il padre Alessandro, impiegato presso la Direzione Opera Pia San Paolo, sposa nel 1878 Adelaide Calcina, già vedova Mogna.
Luigi Serralunga trascorre la sua infanzia a Torino, nella casa famigliare di via Gioberti 24; nel dicembre 1896, dopo aver compiuto gli studi tecnici, s’iscrive alla Reale Accademia Albertina di Belle Arti, dove frequenta i corsi triennali di architettura, geometria, figura, storia e ornato, partecipando ai concorsi interni indetti dall’Accademia con apprezzabili esiti.
Terminati gli studi preparatori, nell’autunno del 1900 s’iscrive con profitto al corso superiore di pittura, ottenendo la medaglia di rame nel corso di disegno di figura, tenuto dal professor Giacomo Grosso. Tra gli insegnanti dell’Accademia, tra cui figurano anche Piercelestino Gilardi e Odoardo Tabacchi, rispettivamente titolari delle cattedre di pittura e scultura, il pittore Giacomo Grosso, giunto al successo con la prima Biennale di Venezia, è sicuramente il principale riferimento nella formazione dello stile pittorico di Serralunga.
Nel febbraio del 1901 la madre Adele muore improvvisamente. Dopo alcuni mesi di assenza dall’Accademia, Serralunga torna a frequentare le lezioni e ottiene la possibilità di soggiornare a Roma, dove si reca nel 1902 per effettuare studi e rilievi dall’antico.
Gli studi proseguono con profitto: al termine del secondo anno, vince la medaglia d’argento e l’acquisto di un’opera fuori concorso per il valore di 25 lire, così come l’anno successivo, quando gli viene nuovamente attribuita la medaglia d’argento. A ventitre anni, Serralunga conclude positivamente gli studi nel giugno del 1904, aggiudicandosi un assegno di 100 lire, per la prova finale di nudo dal vero.
Nel medesimo anno il pittore inizia a esporre presso la Società Promotrice di Belle Arti, partecipando all’annuale rassegna espositiva per i soci in maniera pressoché ininterrotta fino al 1939, anno precedente la sua morte.
Ventisettenne, sposa la coetanea Carolina Muzio, lasciando la casa paterna per trasferirsi in via Santa Teresa, alle spalle di piazza San Carlo, dove abiterà con la moglie fino alla seconda metà degli anni Dieci. Al termine del primo conflitto mondiale i coniugi Serralunga si trasferiscono infatti in corso Duca di Genova, dove l’artista terrà l’atelier fino alla morte. Oltre all’appartamento in città, dal 1929 i Serralunga acquistano una casa sulla collina di Castiglione Torinese, dove trascorrono il tempo libero e dove il pittore si dedica all’attività venatoria, soggetto ricorrente nelle sue opere pittoriche.

In quegli anni Serralunga partecipa alle esposizioni torinesi della Società Promotrice e alle mostre nazionali della corrispettiva milanese; particolarmente degne di nota risultano essere le partecipazioni alla mostra Tre pittori piemontesi, tenutasi a Milano presso la Galleria La Vinciana nel 1921, e alle Quadriennali torinesi del 1923 e del 1928.
Nello stesso anno la Promotrice ospita una personale dell’artista in cui sono presentate una quindicina di opere tra nature morte e ritratti.
Serralunga è altrettanto presente nelle esposizioni organizzate dalla Società d’Incoraggiamento alle Belle Arti, in seno al Circolo degli Artisti, e dalla Società Amici dell’Arte, entrambe attive in Torino, come testimoniano le cronache artistiche firmate dalla penna di Emilio Zanzi, critico d’arte della «Gazzetta del Popolo» e corrispondente da Torino per la rivista «Emporium». Nonostante l’avvento del fascismo, Serralunga, socialista convinto, continua a partecipare alle rassegne della Promotrice, che confluiscono nell’Esposizione annuale del Sindacato Fascista di Belle Arti, il cui regolamento, a partire dal 1929, prevede la possibilità di esporre anche per i non tesserati al partito, previo pagamento di una quota di 30 lire.

Serralunga si afferma gradualmente nella florida scena artistica torinese in cui operano personalità del calibro di Lorenzo Delleani, Cesare Saccaggi, Leonardo Bistolfi e Giovanni Guarlotti. Lo stile pittorico di Serralunga, inizialmente legato al gusto fin de siècle della pittura grossiana e ranzoniana, nel corso degli anni assume un’autonomia espressiva che trova i migliori esiti nella ritrattistica, nel nudo, nelle scene di caccia e in alcune nature morte, soggetti resi con una grafia leggera, al limite del non finito (particolarmente evidente sui bordi). La sua poetica incarna i dettami della tradizione tardo-simbolista, contaminata dalle suggestioni provenienti dalla grande stagione della pittura figurativa ottocentesca.
Nei ritratti delle dame e degli esponenti della borghesia cittadina, la luce tersa sottolinea il pallore dell’incarnato mentre la pennellata, dapprima più controllata e suadente e poi più sfrangiata e opaca, regala all’osservatore intensi brani di armonia cromatica e compositiva. Accanto alla produzione artistica, Serralunga apre il proprio studio ai giovani artisti torinesi, che riconoscono in lui un maestro severo e capace: tra essi Mattia Moreni ed Ettore Fico.
Nel 1939, ormai malato, Serralunga partecipa alle selezioni per i premi Sanremo di pittura, prima di abbandonare l’attività artistica e trascorrere gli ultimi mesi nella casa di Castiglione Torinese. Aggravatosi e trasferito in ospedale, Luigi Serralunga muore a Torino il 3 febbraio 1940.

Due anni dopo la sua morte, il Circolo degli Artisti organizza un’esposizione postuma con oltre ottanta dipinti selezionati dagli amici tra le opere presenti nello studio e nelle collezioni private, accompagnata da una commossa presentazione del pittore Guarlotti. Con i proventi della vendita delle opere, la vedova dà vita al Premio Luigi Serralunga, consistente nella somma di 1000 lire assegnata dalla Società d’Incoraggiamento alle Belle Arti per un’opera di pittura o di scultura esposta per la prima volta alla mostra annuale organizzata dall’ente. Le prime due edizioni vedono vincitori Adriano Alloatti e Michelangelo Monti.
Successivamente alla morte dell’artista, le sue opere sono esposte nelle rassegne annuali Novecento piemontese curate dalla galleria Fogliato, tra le quali occorre segnalare l’Omaggio a Serralunga del 1977, e nelle mostre La pittura a Torino all’inizio del secolo (Torino, Teatro Regio, 1978) e Flower Power (Verbania, Villa Giulia, 2009).
Oltre alle numerose collezioni private, opere di Serralunga sono presenti presso la GAM – Galleria d’Arte Moderna di Torino, il Museo Civico Palazzo Traversa di Bra, la Soprintendenza ai Beni Culturali di Pisae un grande nucleo presso il Museo Ettore Fico di Torino.

MACC – Museo d’Arte Contemporanea di Calasetta
Via Savoia 2, Calasetta (SU)

La mostra anticipa i festeggiamenti dei dieci anni dell’apertura del MEF a Torino e si suddivide in sei sezioni tematiche che tentano di dare una risposta ai tre interrogativi esistenziali posti da artisti, filosofi e scienziati: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?

L’interpretazione, la decodificazione del mondo e la sua traduzione in immagini consegnano una visione e una lettura personale ma anche universale che solo le opere d’arte riescono a trasmettere diventando la chiave di lettura e la testimonianza del tempo in cui sono state realizzate.
Ettore Fico (1917-2004) ha attraversato un secolo di storia e con la sua arte ha toccato tangenzialmente il gusto e le correnti del secolo scorso, arrivando fino agli anni Duemila con una pittura fresca, vibrante e attuale. La sua poetica intimista, personale e autoriflessiva, costruita sulla quotidianità e sulla semplicità, conferma gli stili e le estetiche dei grandi maestri del Novecento da De Pisis a Morandi, da Braque a Scipione di cui fu contemporaneo. Ma la sua visione va oltre, essendo libera e scevra dall’appartenenza a movimenti e a gruppi. La sua solitudine gli permise di “scivolare” tra le diverse correnti senza farsi fermare e intrappolare.

Oggi, artisti come Gerard Richter o Rudolf Stingel, possono passare dall’astrazione alla figurazione e viceversa, senza essere tacciati di incomprensibilità, di assenza di stile o, peggio, di vacuità. La ricerca di Fico è anticipatrice e simile, per libertà e indipendenza, a molti giovani contemporanei che sperimentano e indagano le tecniche senza l’ansia di appartenenza come fu invece per molti movimenti del Novecento dal Futurismo al Surrealismo, dal Minimalismo all’Arte Povera fino alla Transavanguardia.

 

La mostra prende spunto dalla riflessione per cui tutti abbiamo necessità di avere dei ricordi e di conservare quelli dell’infanzia in un luogo mentale, segreto e intimo. Un’infanzia vissuta, immaginata, desiderata o mai avuta. Gli artisti riflettono spesso in modo psicanalitico su questo momento della vita che può rappresentare per ognuno di noi un passaggio vitale crudele, dolce, differente e importantissimo.
Dal ricordo scatenante della madeleine proustiana parte la riflessione sul mondo meraviglioso dei ricordi dell’infanzia e della fanciullezza. Una sorta di delicata nostalgia, un desiderio mai sopito di continuare in quello stato di grazia, una voglia di rivivere in altro modo quel momento particolare della vita, alberga negli artisti invitati che lo hanno idealizzato e ne hanno fatto il perno centrale della loro ricerca.

In Odonchimeg Davaadorj è la famiglia lontana che genera ricordi e desideri espressi in nuclei precisi di corpi accoppiati da cui si generano famiglie e situazioni affettive.

Tutto in Edi Dubien è una ricerca intima, uno scavo esistenziale di sé stessi: l’età adulta come l’infanzia sono solo fasi e modi di rinegoziare il nostro rapporto con la natura, di esplorarne i confini, di spostarne i limiti, di cambiare punti di vista tradizionali.

C’è qualcosa in Julia Haumont di impalpabile, inafferrabile e delicato, frutto di molteplici e casuali accostamenti di materiali, linee, colori. Le sue sculture in ceramica sono bambine assorte nei propri pensieri malinconici: non sapremo mai se il loro gioco è finito o se non è mai iniziato.

Giusy Pirrotta inserisce il suo mondo personale nelle radici profonde della tradizione e delle pratiche magiche ancestrali in cui la fantasia dei bambini può dare spazio ai sogni e ai desideri, anche quelli peggiori, in forma di incubi.

L’affresco globale che scaturisce da questa mostra è quello di un’infanzia interrotta in cui ognuno vorrebbe ritrovare silenzio e serenità, lontananza e alienazione da questo mondo che ci atterrisce e ci turba profondamente.

Il Museo Ettore Fico programma la mostra Afrika Now da giovedì 8 marzo a domenica 30 giugno 2024 con cinque mostre personali di importanti artisti di origine africana e della Guadalupa già rappresentati in Europa da importanti gallerie internazionali: Bouvy Enkobo, Victor Fotso Nyie, Elladj Lincy Deloumeaux, Salifou Lindou e James Mishio.

Le cinque mostre vogliono offrire una panoramica e un focus sulle nuove generazioni che sviluppano una ricerca, soprattutto in campo figurativo, pittorico e scultoreo. Tutte le opere inedite sono presentate per la prima volta in un museo in Italia e la maggior parte di esse sono state create appositamente per questo
appuntamento.
Cinque volumi monografici verranno editati per l’occasione e racchiusi in un unico cofanetto anche se la loro esistenza sarà autonoma e indipendente dalle altre. Gli artisti invitati hanno come tema e poetica dominante nelle loro opere la figura umana e in particolare modo il ritratto. Spesso sono autoritratti in cui l’artista interpreta differenti personaggi, divenendo attore e protagonista dell’opera, ma anche paradigma di una realtà estendibile a tutta la comunità nera, sia che abiti in Africa, sia che abiti in Europa o in altri Paesi. Le opere sono tutte di grande formato, come a voler asserire una presenza ancora più forte, socialmente e politicamente, e propongono la vita reale secondo le poetiche personali dell’artista, intimamente legate alla realtà vissuta nella sua quotidianità.

Problemi politici, legami famigliari, presenze sociali, affetti e storie comuni, vengono illustrati con un peculiare tratto pittorico e un’autonomia estetica che, pur partendo da stilemi ormai consolidati internazionalmente, risultano inconfondibilmente legati al Grande Continente e alla realtà nera.
Le opere pittoriche e quelle scultoree sono pregne di materia, anche la più sublime come l’oro, in patina, o l’argento, evocato spesso con la carta stagnola e le lamiere. Tratti energici e materici si sviluppano e si accavallano sulle opere per dare ancora più forza al tratto e al segno per ribadire come il gesto e la presenza dell’artista siano parte integrante dell’opera, una sorta di estensione del pensiero attraverso la postura del corpo, la gestualità del braccio e, infine, la forza della mano che utilizza il pennello e la spatola come protesi della dinamicità creativa.

I cinque artisti sono diversi e differenti ma appaiono come allievi o maestri della stessa scuola espressiva. Il continente africano e il continente europeo si sovrappongono e si mescolano fino a divenire altro, come per la scultura greca ellenistica che a Roma, nei secoli prima e dopo Cristo, trova nuova linfa e riscrive a modo proprio la storia dell’arte.
È evidente che gli artisti non hanno potuto fare a meno di nutrirsi di cultura internazionale e creare attraverso le influenze estetiche e formali occidentali, ma se rimandiamo la nostra memoria ai primi anni del Novecento, non possiamo fare a meno di pensare a Picasso e al Cubismo per trarre conclusioni simili.

Tutto il tessuto delle avanguardie storiche ha potuto rigenerarsi con l’estetica africana e ora le nuove generazioni compiono il percorso inverso, rigenerandosi attraverso la nostra cultura e proponendosi come programma nuovo per questo millennio.
Tutti gli artisti si fanno portatori di tematiche sociali, più o meno evidenti, perché, fondamentalmente, la problematica etnica non è ancora risolta, così come quella della coesistenza religiosa e della convivenza dei popoli. Eppure, in un terreno pressoché “neutrale” come quello dell’arte si potrebbero far coesistere culture differenti, etnie lontane e stili di vita e di pensiero anche opposti.
Il nostro compito è quello di far conoscere e veicolare verso il pubblico realtà che altrimenti non si conoscerebbero e non si incontrerebbero.

Alessandro Roma ha attivato un meccanismo compositivo ed estetico scevro da legami temporali. Le sue opere fluttuano in una dimensione in cui le date di realizzazione non sono di capitale importanza e appaiono sempre in bilico tra scultura, pittura e design, ammiccando a possibilita di molteplici appartenenze. Eppure, la loro collocazione può esistere solo nell’abito scultoreo e pittorico in quanto il loro utilizzo, nella quotidianità, risulterebbe impossibile.

Altrettante le esperienze e le estetiche a cui attinge senza però “saldarsi” a nessuna, trovando una collocazione autonoma nella storia dell’arte contemporanea. Soprattutto le ceramiche trovano un loro spazio preciso nel vastissimo panorama attuale dove è fra i pochi a determinare una propria estetica autonoma e riconoscibile. I suoi “vasi, soprattutto, si presentano ambiguamente e formalmente come oggetti destinati a un utilizzo domestico per poi risultare impossibili a ospitare altre forme viventi in quanto già stracolmi di vita interna. Questa sorta di ventre dell’oggetto, offerto allo sguardo dello spettatore risulta come un “antro” in cui gli organi pulsanti della vita appaiono in tutta la loro fulgida vitalità. Rami e foglie si intrecciano ad altre forme dai colori smaglianti e l’armonia dell’opera fa da eco a quella della natura vera.

“Ettore Fico – Dialoghi contemporanei. Un artista, un museo, una collezione” è stata espressamente concepita per gli spazi della Fondazione Bevilacqua La Masa in piazza San Marco a Venezia e anticipa i festeggiamenti dei 10 anni dell’apertura del MEF a Torino. I “dialoghi” avvengono fra le opere del Maestro e gli artisti contemporanei internazionali che il museo ospita nelle sue collezioni.
L’opera di Ettore Fico è rappresentata in Europa dalla galleria Maurizio Nobile (Bologna, Milano, Parigi), da oltre quarant’anni punto di riferimento internazionale per l’arte italiana dal XV al XX secolo. Bellezza, autenticità, qualità e rarità: questo è il credo che guida da sempre la galleria alla ricerca di opere e alla riscoperta di artisti con l’obiettivo di accrescere collezioni pubbliche e private.

La mostra si suddivide in 6 sezioni tematiche corrispondenti al numero delle stanze della sede della Fondazione veneziana. In ciascuna di esse il dialogo, fra le opere del Maestro e quelle degli artisti
contemporanei, riprende le tematiche che, da sempre e ancora oggi, sono allabase della creatività artistica: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?» poneva come quesiti agli spettatori Gauguin nel 1897 con il famoso dipinto dallo stesso titolo. Sono i quesiti sempre attuali per gli artisti e per tutti gli uomini che, attraverso l’arte, cercano di dare delle risposte alle grandi incognite dell’esistenza.
L’interpretazione, la decodificazione del mondo e la sua traduzione in immagini, consegnano una visione e una lettura personale ma anche universale che solo le opere d’arte riescono a trasmetterci diventando la chiave di lettura e la testimonianza del tempo in cui sono state realizzate.
Ettore Fico (1917-2004) ha attraversato un secolo di storia e con la sua arte ha toccato tangenzialmente il gusto e le correnti del secolo scorso, arrivando fino agli anni 2000 con una pittura fresca, vibrante e attuale. La sua poetica intimista, personale e autoriflessiva, costruita sulla quotidianità e sulla semplicità, conferma gli stili e le estetiche dei grandi maestri del Novecento da De Pisis a Morandi, da
Braque a Scipione di cui fu contemporaneo. Ma la sua visione va oltre, essendo libera e scevra dall’appartenenza a movimenti e a gruppi. La sua solitudine gli permise di “scivolare” tra le diverse correnti senza farsi fermare e intrappolare.

Oggi, artisti come Gerard Richter o Rudolf Stingel, possono passare dall’astrazione alla figurazione e viceversa, senza essere tacciati di incomprensibilità, di assenza di stile o, peggio, di vacuità. La ricerca di Fico è anticipatrice e simile, per libertà e indipendenza, a molti giovani contemporanei che sperimentano e indagano le tecniche senza l’ansia di appartenenza come fu invece per molti movimenti del
Novecento dal Futurismo al Surrealismo, dal Minimalismo all’Arte Povera fino alla Transavanguardia. Ricordiamo come Breton “epurò” a più riprese gli appartenenti al movimento, come Celant “blindò” il numero dei poveristi e come Bonito Oliva chiuse a cinque il numero degli artisti transavanguardisti.
I gruppi, i cenacoli, i movimenti sono stati funzionali nel passato per delimitare i campi d’azione e formare un “numero chiuso” di appartenenti, per ragioni di mercato e di affermazione, negando quella libertà espressiva fondamentale per la creatività artistica e per l’attuale fluidità dei percorsi intellettuali. Artisti come Giacomo Balla, Emilio Vedova o Mario Schifano hanno trasmigrato da un movimento all’altro, lasciando stili e riprendendoli senza porsi il problema del giudizio della critica. La loro filosofia era principio generativo della loro opera e lo stile, la tecnica e il tempo, conseguenti e propedeutici alla loro creatività.

Oggi rileggiamo tutto il Novecento in modo differente rispetto al passato più recente. Artisti dimenticati o subordinati ad altri sono stati riscoperti proprio nel secolo scorso o nel primo ventennio di questo nostro millennio, esempi su tutti sono Frida Kahlo, Salvo e Carol Rama, come del resto anche Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi.
Ettore Fico ha prodotto opere fin dalla sua primissima giovinezza e non ha mai smesso di interrogarsi su come fare pittura e su come essere contemporaneo al suo tempo. Non deve ingannare quindi la sua libertà di percorrere strade diverse senza negarsi il piacere della sperimentazione e senza definire il proprio ambito negandosi la possibilità di essere, nel ristrettissimo “terreno” pittorico, un artista
dai vastissimi orizzonti. Certo non è stato un militante, un concettuale “engagé”, un rivoluzionario da “rissa in galleria”, egli si è limitato, come Licini, Klee o Veronesi, a fare instancabilmente il ricercatore autentico e moralmente onesto per tutta la sua lunga vita.
Questa mostra vuole riportare nel giusto contesto la figura di Ettore Fico ponendolo in dialogo con giovani artisti che esprimono, attraverso le loro opere, sensibilità simili e parallele. Il dialogo che ne scaturisce afferma che l’arte è sempre attuale pur affrontando tematiche millenarie.

Maggi Hambling è nata a Sudbury nel Suffolk ed un’artista molto nota nel suo Paese mentre lo è meno in Italia. Hambling ha studiato East Anglian School of Painting and Drawing di Cedric Morris e Lett Haines, prima di frequentare le scuole d’arte di Ipswich (1962-64), Camberwell (1964-67) e Slade (1967-69).

Nel 1980 è stata invitata alla National Gallery di Londra come artista contemporaneo in residenza. La sue opere più conosciute sono i suoi Autoritratti e ritratti di figure note del suo tempo, tra cui il suo mentore, l’artista Lett Haines che morì nel 1978 e Francis Bacon. I ritratti vengono eseguiti con rapidi segni condensati, gestuali e stesi su uno sfondo bianco. All’interno di queste “turbolente” formazioni pittoriche, immagini più sciolte e astratte emanano una sincerità emotiva che scaturisce dal continuo impegno dell’artista con l’attualità della vita che trasmettono ambigui stati d’animo fra umorismo e dubbio, rabbia e gioia, vitalità e mortalità.

I più recenti dipinti (Edge), realizzati su tele verticali, ricordano la pittura cinese e i rotoli di carta dipinti a inchiostro, essi raffigurano montagne e distese polari attraverso audaci accumuli di indaco e bianco che suggeriscono contemporaneamente un deserto interiorepsicologico e un’ambientazione paesaggistica. Fra i suoi lavori più conosciuti ricordiamo la realizzazione del memoriale ad Oscar Wilde dal titolo A Conversation with Oscar Wilde che si trova a Londra a Trafalgar Square e The Scallop una scultura di oltre 4 metri dedicata a Benjamin Britten che si può osservare sulla spiaggia di Aldeburgh.

Nel 2020 desta polemiche la scultura dedicata alla “madre del femminismo” Mary Wollstonecraft, definita dalle femministe come una «decorazione di Natale da sito porno»; le femministe si sono inoltre chieste: «Si è mai vista una statua di Dickens con le palle di fuori?». Bee Rwolatt, la presidente della società promotrice della campagna per restituire «la presenza di Mary in forma fisica», ha cercato di difendere l’opera, ma con scarsi risultati: Emily Cockn ha commentato: «Finalmente un riconoscimento pubblico che le donne nel Diciottesimo secolo erano completamente nude ed estremamente piccole»; mentre Jojo Moyes ha ironizzato con «sarebbe stato carino commemorare Mary Wollstonecraft con i vestiti addosso: non si vedono molte statue di politici maschi senza mutande». La Hambling si è difesa sostenendo che «deve essere nuda perché i vestiti definiscono le persone. Per quanto mi riguarda, ha più o meno la forma che tutte vorremmo avere».

Maïmouna Guerresi (Vicenza, 1951) è un’artista multimediale italo-senegalese, che opera con la fotografia, la scultura, il video e le installazioni. Nel suo percorso artistico ha sviluppato una visione affascinante e introspettiva sulle molteplici prospettive della sua vita all’interno di due culture: europea e africana. Ha letteralmente collegato questi mondi e il suo impegno per la spiritualità sufi. Usando un linguaggio visivo ibrido, Maïmouna Guerresi comunica la bellezza della diversità culturale, mentre contempla le molte questioni relative alla vita contemporanea di una società multietnica. L’arte e la letteratura islamica forniscono una fonte inesauribile di ispirazione per il suo lavoro, con le loro rivelazioni mistiche, metafore, intuizioni, versetti sacri e poteri taumaturgici. Le sue opere riaffermano un’energia femminile universalmente riconoscibile che si traduce in evoluzione spirituale, mentre allo stesso tempo decontestualizza e decolonizza le varie idee stereotipate delle donne nel mondo islamico.

Le sue creazioni scultoree, quasi architettoniche, combinano i volti e i corpi dei soggetti con lo spazio circostante. Alcuni sembrano fluttuare, privi di corpo, mentre i loro veli celano un antro profondo e oscuro, come una rappresentazione simbolica del mistero. Guerresi presenta una prospettiva intima sulla spiritualità umana in relazione al misticismo, gettando una nuova luce sulla comunità e sull’anima, fortemente influenzata dalle tradizioni sufi in Senegal, Sudan e Marocco. Metafore ricorrenti come il latte, la luce, l’hijab e la natura creano una consapevolezza delle vitali qualità unificanti della spiritualità islamica. Le immagini sono narrazioni delicate con sequenze fluide, un apprezzamento dell’umanità condivisa oltre i confini: psicologici, culturali e politici. Il suo lavoro è rappresentato dalla galleria Mariane Ibrahim.