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Nato nel 1941 nel Michigan, vive e lavora a New York.

Il Museo Ettore Fico è lieto di presentare la prima mostra antologica dell’artista americano John Torreano. Il percorso artistico di John Torreano inizia in modo significativo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta in un clima post-bellico e in un fermento culturale occidentale che genera e elabora importanti istanze sociali ed economiche. L’inarrestabile crescita del prodotto interno lordo americano di quegli anni, la Guerra Fredda e quella del Vietnam, la nascita del consumismo ma anche del benessere, la rivoluzione nera di Martin Luther King e quella di Kennedy, sono gli scenari in cui l’artista vive ed da vita alla sua poetica personale.

Fin da subito il suo interesse è indiscutibilmente rivolto alla pittura come mezzo tradizionale e utilizzato però secondo estetiche e tecniche contemporanee. La sua chiave espressiva si muove in modo molto libero e si avvale di forme e formalismi in voga in quel tempo. Sono evidenti fin dagli esordi i suoi interessi preponderanti: lo spazio, la campitura e le stesure coloristiche, i soggetti senza ombra come sospesi e ritagliati nel vuoto, la ricerca sulla tridimensionalità mutuata sia dall’optical che dal pop. Inoltre, il quadro come oggetto/forma tridimensionale, è alla base di un approfondimento stilistico che sarà per lui motivo di indagine fino a oggi.

John Torreano arrivò a New York alla fine degli Anni Sessanta, in un periodo di esplosiva creatività dove nuove generazioni di artisti iniziavano a proporre approcci sperimentali tanto alla forma quanto al contenuto. La loro enfasi su materiali nuovi, immaginando applicazioni tradizionali, e il loro veemente rigetto dell’astrazione gestuale che li ha preceduti costituì le fondamenta del Minimalismo, una metodologia che enfatizzava la geometria, le forme ridotte, e la materialità. Una figura chiave in questa generazione di artisti fu Richard Artschwager, e fu proprio un incontro fortuito con lui nel 1967 che ispirò Torreano a recarsi a New York City.

“All’epoca insegnavo all’Università del Sud Dakota, a Vermillion, e Richard fu invitato in qualità di artista ospite. Non avevo mai visto i suoi lavori prima, e immediatamente vi sentì una connessione. Amavo l’idea che un quadro potesse essere anche una scultura ed un disegno allo stesso tempo. A quel tempo, tutti coloro insieme a cui insegnavo sarebbero andati sulla West Coast o la East Coast. Io pensai che, se Richard era a New York, allora era lì che io volevo essere”.

Atterrato a New York nel 1968, Torreano fece amicizia con un circolo di artisti che condividevano il suo entusiasmo e la sua ambizione. La sua prima casa fu un loft al numero 81 di Greene Street a Soho, allora centro del mondo artistico di New York grazie alla facile disponibilità di grandi spazi sgombri (anche se spesso privi di tubature e con riscaldamenti rudimentali).

“Gli artisti che conoscevo al tempo – Ron Gorchov, Bob Grosvenor, David Reed, Bill Jensen, Lynda Benglis, e Jennifer Bartlett – stavano lavorando su svariati concetti riguardo che cosa potesse essere l’Arte. Questo era ciò che rendeva così eccitante lo stare lì. Eravamo proprio all’inizio della frattura del concetto di stile e del rigetto dell’idea che si doveva appartenere ad una delle religioni primarie: Figurativo, Espressionismo Post-Astratto, Pop, Minimalismo, Campo Colore, e Concettualismo. Eravamo tutti parte di un eclettismo emergente che continua a fratturarsi anche oggi”.

I suoi coinquilini erano il concettualista Steve Kaltenbach e il pittore murale architettonico Richard Haas. Alcuni dei suoi vicini erano amici dai tempi dell’Università, alla Ohio State University. Uno di loro, Ron Clark, invitò Torreano a presentare una mostra personale al Whitney Independent Study Program, recentemente costituito e allora posizionato in un edificio industriale in Cherry Street, nel Lower East Side.

Nel 1972, Trudie Grace, direttrice artistica, e Irving Sandler, critico, fondarono l’iniziativa di mostre alternative chiamata Artists Space. Collocata al numero 155 di Wooster Street a SoHo, si impose velocemente come un luogo devoto al lavoro di artisti emergenti. Una recensione della Mostra tenuta nel 1979 alla Galleria, scritta da John Russell per il The New York Times, sottolinea la significatività della location per il lancio di artisti variegati come Laurie Anderson, Scott Burton, Judy Pfaff, e Torreano. Tutti loro parteciparono sin dal primo momento, e tutti loro divennero prominenti nel mondo dell’arte di New York e non solo. Un aspetto che definiva l’Artists Space era che le Mostre erano organizzate da Artisti che sceglievano i lavori di altri Artisti, incoraggiando così un sistema di peer mentoring in un tempo in cui le opportunità nelle gallerie commerciali o nei musei tradizionali erano ancora relativamente poche.

Nel 1974, Chuck Close seleziona Torreano per la sua prima mostra personale a New York. I quadri che Torreano esibì all’Artists Space – tutti i prodotti nel 1973 e comprendenti ad esempio Red Bulge, Red Star, and Outer Space — enfatizzarono il suo focus sul definire e dare forma ad immagini dallo spazio interstellare, rinforzando il paradosso tra la materialità e l’illusione.

Le tele erano incrostate con impasti pesanti di pittura a olio e gemme decorative di plastica e vetro vendute commercialmente, delle “stelle” sparse, diversamente dalle opere precedenti in cui i punti erano, invece, dipinti. L’illusione di spazi vasti e vuoti era smentita dal contenimento del lavoro dentro cornici caratterizzanti e dipinte, fatte con tasselli arrotondati. La pesantezza delle cornici ispirò un’altra innovazione.

“I quadri-colonna emersero al tempo in cui stavo creando quadri con enormi cornici arrotondate, nei primi Anni Settanta. Mi immaginai due cornici arrotondate unite a formare una colonna semicircolare. Questa nuova invenzione mi diede l’opportunità di avventurarmi più profondamente nella mia esplorazione riguardo la percezione e la relazione tra l’osservatore e l’oggetto.”

Le colonne di Torreano affermavano uno spazio illusorio, estendendo la sua pittura oltre il muro, pur rimanendovi legata, e facendo ciò, sconvolsero l’enfasi che la pittura astratta poneva su un piano piatto ed espanso. Negli anni Settanta il suo lavoro assume una posizione e una personalità definita: tele con cornici o tavole di legno sempre con cornici, molto fisiche e molto presenti, spesso, se non sempre, arrotondate ai bordi e il tutto dipinto da colori monocromi più o meno materici, più o meno stesi fino a ricoprire tutta la superficie della tela e della cornice. È una prassi che aveva suggerito Seurat in molte sue opere che, non pago dei limiti pittorici imposti dai bordi classici della tela, aveva invaso letteralmente anche lo spazio della cornice che era parte e limite contemporaneamente dell’aldilà e dell’aldiqua del quadro. L’opera diventa in tutto e per tutto un oggetto tridimensionale, scultoreo, minimalista. Le superfici, soprattutto nei lavori dei primi anni Settanta, sono fluide e si percepisce il segno del pennello che, in una prima e sola stesura, lascia le tracce dei peli intrisi di colore. Blu e azzurri e altri colori debordano dalla tela alla cornice e piccoli punti vengono disseminati su tutta la superficie in un caos eccitato e vitalistico.

Nella seconda metà del decennio, Torreano aumenta la magmaticità del colore, ne preserva la densità data dal segno della stesura e “rivolta” le cornici dall’interno all’esterno, per farle assumere una forma estroflessa e morbida, fino a dare all’oggetto l’aspetto di un cuscino su cui si sono posati i cristalli. D’ora in avanti le pietre preziose, le forme lucide e rilucenti si sommeranno una all’altra sempre più a formare parte integrante della pittura e a volte a sostituirla.

È verso la fine del decennio tra il 1977 e il 1979 che l’artista sistema le gemme e i puntini in modo da formare degli agglomerati e delle nebulose. A poco a poco la “polvere di stelle” si accorpa a riformare nuclei rotanti o buchi neri dell’universo da cui provengono. Le pietre preziose lasciano il posto a importanti concentrazioni di punti monocromi o multicolori che illuminano un cosmo buio e silenzioso.

“L’uso delle gemme iniziò simultaneamente al mio crescente interesse nelle stelle e nello spazio profondo. Nel 1969, stavo facendo quadri punteggiati e avevo bisogno di una risorsa più complessa rispetto a quanto proveniva dalla mia testa, quindi cominciai a fare fotografie alle stelle. Le fotografie mi portarono a leggere libri riguardo lo spazio ed i concetti dello spazio. Presto iniziai a fare connessioni tra lo spazio profondo e lo spazio della pittura .”

Il percorso creativo di Torreano è scandito fin dagli anni Settanta dalla produzione delle Colonne. La loro realizzazione arriva fino a oggi e ogni periodo è ben riconoscibile proprio dalla tipologia di pittura o intervento adottato dall’artista per la loro realizzazione. Alcune sono decisamente minimaliste, appena dipinte e con pochissimi inserti cromatici, altre invece abbondano di oggetti smaltati, dorati, di gemme e di cristalli, di pittura sovrabbondante o dilavata, da concrezioni pittoriche quasi aggettanti fino a paste che assomigliano a chewing-gum. Questo light motive della colonna è frutto dell’evocazione cosmogonica dello spazio.

La colonna e gli obelischi come simboli fallici ancestrali del pene, sono da sempre considerati come oggetti che segnano la vicinanza dell’uomo al cosmo, la loro verticalità ricongiunge la terra al cielo e di conseguenza l’uomo a dio. La forma delle colonne di Torreano evoca fortemente anche quella del linga (simbolo fallico considerato come presenza di Shiva) che rappresenta in termini assoluti il Trascendente, vi è perciò una sacralità erotica in questi “falli” agghindati a festa in cui è evidente una ritualità fra pagano e divino.

Lo sguardo dello spettatore viene catturato e ingannato dalle opere a causa della rifrazione dei cristalli. Gli spostamenti innanzi ai dipinti, dove la percezione fissa dell’immagine è resa impossibile a causa di questa frammentazione, è parte integrante della volontà dell’artista. In questo modo l’osservatore diventa parte integrante dell’opera con il movimento del suo corpo, partecipando alla creazione “multipercettiva” e divenendo strumento ottico/performativo.

I cristalli di plastica specchiante, rifrangendo in modo differente la luce, giocano con la retina dello spettatore, cambiando la percezione cromatica dell’oggetto. Gli sfavillii delle false gemme, sotto differenti illuminazioni, mutano la natura stessa dell’oggetto che risulta, proprio in base alle fonti luminose che lo irradiano, più o meno ricco, più o meno luminoso, più o meno riverberante.

La base pittorica delle differenti “colonne”, su cui si incastrano le gemme, è di per sé un trattato pittorico su come la materia, distribuita differentemente sulla superficie del legno, a sua volta più o meno assorbente, possa risultare opaca, lucida, grumosa, liscia, increspata, spatolata, pennellata e così all’infinito per tutte le innumerevoli possibilità che l’acrilico, l’olio o altri mezzi possono esprimere attraverso le infinite mescolanze chimiche naturali o artificiali. Il supporto su cui interviene l’artista può essere scuro o chiaro, leggero o pesante, spesso o sottile, come se fosse un tessuto realizzato con seta, cotone, lana o altri materiali tessili a cui, sarte e ricamatrici provette avessero applicato uno strato di gemme multicolori dandoci una fragranza ottica vitalistica e positiva. In questi due aggettivi potremmo perciò riassumere la produzione passata e recente di John Torreano che nel suo percorso creativo è stato – ed è – anche coerente e determinato.

Per questa sua prima mostra personale in un museo in Italia, l’artista ha optato per una scelta estremamente radicale indirizzando tutta l’attenzione del pubblico sul lavoro delle installazioni costruite con lettere e frasi. Le 14 opere realizzate espressamente per questa mostra – e mai esposte in Italia – rappresentano un corpus unitario e posizionano la scelta artistica di Pierson verso una via più concettuale che figurativa.

Questa serie, definita Word Sculptures e iniziata nel 1991, utilizza oggetti abbandonati e recuperati da vecchie insegne di cinema, di supermercati, di casinò e da insegne pubblicitarie di fabbriche dismesse. Questa serie crea frasi e semplici parole che propongono molteplici
significati ed evocano immagini personali nello spettatore. La loro estetica ha radici profonde nella cultura Pop degli anni Sessanta e lo stesso utilizzo di oggetti desunti dalla quotidianità la riconducono a grandi artisti come Rauschenberg e Warhol.

Va detto che tutte le lettere utilizzate sono espressioni della produzione industriale del nostro tempo. Che siano forme semplici o barocche, appartengono tutte all’estetica del lettering utilizzato per l’arredo urbano e per le insegne che popolano le strade di tutte le città del mondo.

La loro familiarità e la loro desuetezza, sono il simbolo evidente del consumismo che affligge la nostra epoca e il nostro tempo. La ruggine, la corrosione e le scolorature delle vernici non sono altro, quattrocento anni dopo, che le stesse erosioni del tempo nelle mele e nelle foglie
della canestra di frutta di Caravaggio. Questa dissolvenza degli oggetti e il loro trascolorare fantasmatico, riporta lo spettatore in un mondo nostalgico.

È chiaro che tutto riaffiora dal tempo trascorso e che nulla potrà riportare in vita l’oggetto e la sua funzione. Ormai, come frammenti di un relitto alla deriva, le lettere fluttuano sulle pareti intonacate delle gallerie e dei musei, il loro vagare nello spazio appare approdato ormai in un luogo sicuro, ma nulle è eterno e, forse, loro intraprenderanno ancora altri viaggi. La loro estetica dimessa è comunque elegante e tutto viene ulteriormente nobilitato dai significati dati alle lettere composte in parole e talvolta anche in frasi. Sono esclamazioni, frammenti di conversazioni raccolti o rubati dalla strada, frasi fatte o semplici accenni. La loro applicazione sui muri è determinata da un’estetica precisa che l’artista utilizza come i fiori di un ikebana. L’eleganza della loro disposizione colloca le sue scritte nello spazio della vita reale rendendo poesia haiku, ciò che per altri sarebbero solo inutili scarti industriali.

La mostra
Nebojša Despotoviċ Džeparoši sa bajlonove pijace (Pickpockets from Bajloni market), 2019

Le opere di Nebojša Despotoviċ sono inesorabilmente avulse da un contesto riconoscibile e, anche se tutte ci appaiono come estranee alla nostra vita, molte parlano di esperienze che riconosciamo, risultando come riflesse in uno specchio annebbiato ma famigliare.

I personaggi/attori che le popolano recitano parti in cui l’artista stesso si immedesima, a tal punto, da assegnare dei nomi o dei nomignoli alle figure mentre le dipinge. Il fatto poi che sembrino personaggi in costume, li fa sembrare ancora più reali perché trasposti in un mondo senza tempo, senza precisi riferimenti al nostro vissuto e tutto appartiene a un momento infinito nella grande commedia della vita.

“Mi sono chiesto talvolta se tutti questi uomini e donne e, sopratutto, bambini, fossero scaturiti dal mondo ebraico polacco dopo o immediatamente prima dei bombardamenti tedeschi a Varsavia, se fossero figli di una Londra sovradimensionata, o di anonime comparse del Novecento di Bertolucci.”

Ogni sua opera, esaminata in profondità, appare come un’appropriarsi di mondi e poetiche altrui. Appare in alcune il mondo erotico di Scipione, la materia sovrapposta di Picabia e tutta la derisione del mondo borghese di Bunüel di Le chien andalou o del Fascino discreto della borghesia, appare anche lo stravolgimento espressionista del Dottor Caligari di Robert Wiene ma anche quello di Murnau, Lang e Pabst. I collegamenti sono quindi infiniti – il gioco di domino o di cadavre esquis, in cui una tessera si accompagna a un’altra e ne genera una terza e poi una quarta e così via, come le associazioni psicologiche in cui lo psicanalista ti chiede di associare immagini a altre immagini – così il lavoro dell’artista opera nella sua mente associazioni e legami formali, concettuali ed estetici che vanno “a briglia sciolta”, in modo automatico, metaforico, come in una scrittura mescalinica di immagini simili e conseguenti.

Egli si immerge mentalmente nel racconto dipinto sulla tela, per poi estraniarsene e, facendo un passo indietro, riassumere la veste del creatore e quindi regista della scena. Il teatro, la pittura, la persona, i personaggi, il regista e gli attori, i ruoli e la vita, veri o falsi che siano vivono in un balletto mentale e reale che si esprime oltre la tela/sipario/fondale, oltre lo studio dell’artista, ma anche tutto dentro la sua mente.

Soprattutto gli interni, i salotti delle case raffigurate, sono scenografie di quinte teatrali dove si potrebbe recitare Ibsen (Casa di bambola), James (Ritratto di signora) ma anche Beckett (Aspettando Godot) e Jarry (Ubu Roi). Questi interni borghesi in cui vi è sempre una lampada, un tavolino, poltrone ridondanti, tappeti e lampadari, sono lo stereotipo della casa borghese, del luogo anonimo e incolore, pensati per lasciare più spazio alle tragedie familiari che non hanno bisogno di interni raffinati e di oggetti scelti e personali, di quadri importanti e di autori riconosciuti. Il luogo assume lo stato di “non luogo”, di deserto ammobiliato, potrebbero essere dune di sabbia di un deserto o rocce di montagna. Questi non luoghi sono la scenografia per i personaggi raffigurati che potrebbero, in modo fantasmatico, trasmigrare da un’opera all’altra.

Questa “famiglia”, disseminata per tutte le opere, si conosce e si riconosce attraverso lo sguardo dell’artista e, per associazione, anche nel nostro. Le assonanze e le similitudini ci appaiono, dopo aver guardato tutta la sua produzione, come evidenti: fratelli separati in una tela vengono ricongiunti in un’altra; partenti dispersi si ritrovano proprio in quei salotti piccolo borghesi ritagliati in colori monocromi secondo la lezione della Stanza rossa di Matisse; animali e vicini di casa, artigiani ubriachi, burattini e burattinai legnosi, macellai e saltimbanchi stravolti si assommano in scene della stessa pièce teatrale ripresa in infinite recite sul suo palcoscenico. Appare quindi tutto il corpus delle opere come un lungo e ininterrotto racconto dovstojevskiano in cui i personaggi raffigurati appaiono e scompaiono da un capitolo all’altro popolando un mondo in cui arbitrariamente lo spettatore mette in scena la propria analisi e il proprio psicodramma. Queste opere appaiono, oltre alla struggente bellezza dei dipinti in quanto tali, come tavole di Rorschach. Il lusso, la calma, la voluttà e la gioia di vivere di matissiana memoria, con il parossismo e gli eccessi contemporanei, appaiono evidenti in questo popolo orgiastico e pagano in cui nulla riporta alla classicità ma al nostro tempo reale traslato nella scena di una commedia con una regia ben calibrata.

Biografia
Nebojša Despotoviċ è nato a Belgrado, Serbia nel 1982. Vive e lavora tra Treviso e Venezia.

Egli attinge a piene mani dal patrimonio iconografico collettivo e personale recuperando vecchie fotografie e immagini. Ritagli di giornali, libri, manuali e riviste diventano il punto di partenza dal quale l’artista costruisce le proprie opere. La ricerca di Despotoviċ, attenta alla definizione e alla rappresentazione del concetto di identità, sottrae solo apparentemente le immagini all’oblio del tempo. Ricoperte e alterate con la pittura, le scene narrate acquisiscono un carattere indefinito e inattuale, ricondotte ad un tempo remoto.

  • Nel 2011 ha partecipato alla prestigiosa residenza alla Fondazione Bevilacqua La Masa ed è stato selezionato per la 54a Biennale di Venezia a rappresentare le Accademie Italiane all’Arsenale. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi.
  • Nel 2012 ha vinto il Premio Euromobil Under 30 ad ArteFiera di Bologna e il premio Mango Young Artist Award alla fiera Swab di Barcellona.
  • Nel 2013 ha vinto il Premio Celeste per la sezione sperimentale Raw Zone ad ArtVerona
  • Nel 2015 ha vinto il premio speciale Art Prize ad ArteFiera di Bologna e nel 2016 il premio Rotary Prize ad ArtVerona.
  • Nel 2017 ha esposto alla Galleria Monitor di Roma con la Fondazione Malutta. A maggio 2017 ha inaugurato la sua mostra personale a Mosca da Triangle Gallery e a settembre 2017 la sua personale a New York da Ierimonti Gallery.
  • Nel 2018 ha presentato la terza personale da Boccanera Gallery Trento e Milano The Devil and the Deep Blue Sea ovvero freie Kartoffeln.
  • Nel 2019 è stato selezionato come finalista alla ventesima edizione del Premio Cairo, presentato al Palazzo Reale di Milano.

Ha partecipato a numerose mostre in spazi pubblici e privati. A febbraio 2014 ha presentato la sua seconda mostra personale Silent Fracture, Trento. A maggio cura 2014 di è Maja stato Ciric, ospite da Boccanera Gallery. Del Museo di Capodimonte a Napoli per il talk intitolato Still life of Nebojša Despotoviċ curato da Angela Tecce, direttore del Museo di Castel Sant’Elmo, e Eugenio Viola, Chief Curator al Museo de Arte Moderno de Bogotá MAMBO.

Nel Sulcis Iglesiente, nella parte sud occidentale della Sardegna, a Villamassargia, esiste un orto secolare di ulivi innestati dagli abitanti tra il 1300 e il 1600 chiamato “S’Ortu Mannu”, l’orto grande. All’interno del parco di oltre tredici ettari, dimorano più di settecento ulivi secolari affidati alle cure delle famiglie del paese; tra di essi campeggia uno degli ulivi più antichi d’Europa chiamato “Sa Reina”: La Regina.

Con oltre 16 metri di circonferenza del tronco, le sue chiome verdissime, i rami nodosi, “Sa Reina” sfida il tempo, le stagioni, la storia. Madre, guardiana coraggiosa, difende il territorio e quel poco che resta dell’antico sconfinato dominio. La Sardegna è spesso un racconto al femminile, che affonda le sue radici nella Preistoria per giungere, con un bagaglio inestimabile di saperi antichi, alle soglie del nostro tempo. Prima dee, poi regine, poi artiste il viaggio prosegue, cambiano le armi ma il principio di resilienza resta immutato, quasi fosse geneticamente trasmesso, anche quando, l’occhio attento, mette a fuoco oltre il mare il mondo con la sua contemporaneità.

La mostra Reinas raccoglie e presenta le opere di quattro tra le più importanti artiste di Sardegna, tre generazioni a confronto e un focus sulla produzione dagli anni ‘70 ai giorni nostri.

Parliamo di quattro piccole antologiche dedicate a Maria Lai, Zaza Calzia, Rosanna Rossi e Lalla Lussu interconnesse tra loro a sottolineare punti di contatto e diversità di ricerca. Il percorso è tracciato da altrettante parole chiave che vogliono suggerire il tema caratterizzante dei nuclei selezionati lungo una narrazione che è anche scoperta, sorpresa, riflessione, in un tempo che scorre in ritmi differenti per creare esperienze personali e condivise.

Ecco quindi l’ago di Maria Lai sfilato da un muro cucito per “legare collegare” insieme i quattro temi della Parola, del Ritmo, del Colore e del Segno come capitoli selezionati da un unico libro. Immergendoci nella spiritualità di Lai, nell’ironia giocosa di Calzia, nei colori solari di Lussu, nel rigore estetico di Rossi scopriremo inusitate esperienze di ricerca che restituisco un territorio aggiornato, distante dagli stereotipi più comuni, dove isola non è isolamento ma spazio di convivenze in cui sottili rimandi tra passato e presente sono più chiari, meno disturbati da rumori bianchi. Sull’isola i silenzi profumano di eterno, ecco perché è più facile ascoltare. Attraverso quattro tra le artiste più note del panorama sardo s’intende individuare un percorso comune che restituisce la capacità di trattare elementi peculiari della storia, della cultura, della natura del territorio sardo per restituirli alla collettività elaborati in linguaggi contemporanei aventi la straordinaria capacità di varcare geograficamente i confini “regionali” per divenire patrimonio collettivo internazionale.

Zaza Calzia

Zaza Calzia nasce a Cagliari nel 1932. Compie studi artistici presso l’Istituto Statale d’Arte di Sassari. Dal 1961 ha diretto il laboratorio di decorazione pittorica con l’insegnamento di progettazione e il disegno professionale dell’Istituto d’Arte di Sassari e ha fatto parte del “Gruppo A”. Negli stessi anni svolge l’attività di designer per l’artigianato e l’industria. Dal 1967 si occupa di libri per l’infanzia. Socia nella cooperativa “Prove 10”, ha pubblicato nel 1974 a Roma “Un Paese” (una favola colorata). Dal 1975 al 1997 ha diretto, presso l’Istituto Statale d’Arte di Roma 2, il laboratorio di decorazione pittorica con l’insegnamento della progettazione e del disegno professionale. Svolge la sua attività artistica a Roma, dove risiede dal 1970.

Maria Lai

Maria Lai nasce nel 1919 a Ulassai. Fin da bambina mostra uno spiccato talento artistico e ha l’opportunità di entrare in contatto con il mondo dell’arte (posa per lo scultore Francesco Ciusa per un ritratto della sorellina scomparsa). Pochi anni dopo, la famiglia decide di iscriverla alle scuole secondarie di Cagliari, dove conosce Salvatore Cambosu che per primo scopre la sua sensibilità artistica. Nel 1939 si trasferisce a Roma per frequentare l’Istituto d’Arte e, successivamente, nel 1943 a Venezia, dove segue le lezioni di Arturo Martini all’Accademia delle Belle Arti.
Rientra in Sardegna, non senza difficoltà, nel 1945. Qui riprende l’amicizia con Cambosu e insegna disegno nelle scuole elementari di Cagliari. Ritorna a Roma nel 1956 e, l’anno successivo, presso la galleria L’Obelisco, tiene la sua prima personale. L’attenzione critica ricevuta in quell’occasione non soddisfa però le attese personali dell’artista che inizia così un lungo periodo di riflessione in cui ritrova il mondo dei poeti e degli scrittori, fra i quali Giuseppe Dessì.
Nel 1971, presso la Galleria Schneider di Roma, espone i primi Telai, un ciclo che caratterizza i dieci anni successivi e l’avvicina ai temi dell’arte povera. Nel 1978 partecipa alla mostra “Materializzazione del linguaggio”, evento collaterale della Biennale di Venezia curato da Mirella Bentivoglio, con i primi “libri cuciti” mentre negli anni Ottanta dà vita alla serie delle “Geografie” e si dedica alle prime operazioni sul territorio. Nel 1981 realizza a Ulassai la performance collettiva “Legarsi alla Montagna” che anticipa i temi e i metodi di quella che sarà definita, oltre un decennio dopo, come “arte relazionale”. A partire dagli anni Novanta realizza una serie di interventi di arte pubblica che riusciranno a trasformare il suo paese natale in un vero e proprio museo a cielo aperto.
Nel 2006 istituisce a Ulassai la “Stazione dell’Arte”, museo di arte contemporanea a lei dedicato che custodisce le opere più significative del suo percorso artistico. Il 16 aprile 2013 si spegne all’età di 93 anni. Nel 2017 alcune sue opere figurano in contemporanea nelle principali rassegne periodiche internazionali, come la Biennale di Venezia e Documenta a Kassel e Atene. Nel 2019, in occasione del centenario della sua nascita, il MAXXI di Roma le dedica la retrospettiva “Maria Lai. Tenendo per mano il sole” e l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi organizza la sua prima monografica in Francia, “Maria Lai. Suivez le rythme”, che la consacrano sulla scena internazionale come una delle figure più originali e innovative del panorama artistico della seconda metà del Novecento.

Lalla Lussu

Lalla Lussu è nata a Cagliari dove ha vissuto e lavorato per gran parte della sua vita. Consegue il diploma al Liceo Artistico Statale Foiso Fois e la laurea in Storia dell’Arte Contemporanea con una tesi sull’artista Enrico Castellani. Dal 1984 è docente di Discipline Pittoriche, presso il Liceo Artistico Statale Foiso Fois di Cagliari,città nella quale vive e lavora. Nel 1971 frequenta il corso di pittura presso l’Internatìonale Sommerarakademìe fur Bildende Künst di Salisburgo con il maestro Heinz Trökes, e nel 1989, con il maestro Jörg Immendorf. Dal 1982 al 1984 frequenta i corsi d’incisione presso l’Accademia Raffaello d’Urbino e nel 1997/1998 i corsi avanzati d’incisione tenuti dal maestro fiammingo Enk de Kramer presso il Museo ExMà di Cagliari. In seguito alla prima mostra personale del 1977, presentata da Giorgio Pellegrini, confronta il suo lavoro con quello di altri giovani artisti italiani, partecipando a mostre come il Premio San Fedele e Quadri Giovani 1981 a Milano e Territorialità dell’arte a Capo d’Orlando (Palermo), curata dal critico Simonetta Lux. Dal 1982 partecipa al programma di mostre proposte dalla gallerista Sandra Piras, nel suo storico spazio Chironi 88 di Nuoro, dal titolo Istanze Contemporanee. Negli anni Ottanta-Novanta l’attenzione è catturata da un’espressione pittorica che la stessa artista definisce “astratto ma non troppo”. Dal fondo marino popolato di pesci alla terra, dall’abissale alle radici, all’essere vivente, fiore o albero, petalo e foglia, fusto e fronda, e ne sono testimonianza le mostre “La preponderanza delle cose piccole”, “Tempere”, “Un albero ancora bambino balla e canta sull’erba”, “Insularità” (curata dal critico Giuliana Altea), “Lontane radici del senso” (presentata dal critico Caterina Limentani Virdis), “Preghiera e Pentimento. Nel 2000, alla mostra Attraversamenti, a cura dell’Associazione Culturale “Man Ray”, espone le sue prime Icone, presentate dal critico Ivo Serafino Fenu. Nel 2003 presenta 19 grandi Icone Urbane al Lazzaretto di Cagliari, a cura di Alessandra Menesini. Dopo la partecipazione nel 2003 alla mostra dedicata a “Sardae Patronus Insulae Sublimis Inter Martires”, decide di rivolgere tutta la sua attenzione e il suo impegno alla tecnica dell’acquerello e alla possibilità di nuove sperimentazioni; a tale proposito si ricorda la mostra del 2005 “Duetto d’Artista” all’Exmà di Cagliari dall’intrigante sottotitolo “RA MA DU RA” e la partecipazione alla mostra Carte e…carte, organizzata dal Centro Culturale Man Ray, con un opera Ziqqurat/Taruqquiz del 2007. Da 2009 al 2012 partecipa ad una serie di mostre collettive “Riflessi”, “Bianco come la Pece”, “Stanze”, dove l’impegno verso la tecnica dell’acquerello è sempre più sperimentale rivolgendo la massima attenzione al coinvolgimento dello spazio e dello sguardo. Nel 2011 nella mostra personale dal titolo: “I fiori sbocciano…presto raggiungerò il bosco”, presentata dallo storico dell’arte Marisa Frongia, realizza con carta e acquerello un’installazione site specific dedicata al mondo vegetale. Recentemente ha collaborato con artisti e architetti al recupero d’alcune aree urbane della città di Cagliari, partecipando nel 2000 al progetto “Dieci artisti per il Favero”, nel 2001 al progetto “Piazza d’Arte” e nel 2010 al progetto “Open Show” nella città di Sassari. Dal 2009 al 2012 ha preso parte alle mostre di New Design “SiediTi”, “Contenitori alT”, “TVB”, con opere tridimensionali realizzate con lana lavorata ai ferri. Nel 2012 è stata scelta per rappresentare la Regione Sardegna alla Biennale dell’acquarello di Albignasego (PD). Nel 2013 con la mostra “Acquarelli” presenta la sua opera nella Cittadella dei Musei di Cagliari. Dal 2012 l’artista inizia a lavorare su teli di lino naturale, stoffe plissettate e dipinte a mano in cui l’instancabile ricerca sui legami tra Arte e Natura incontra il suo mondo ideale e spirituale. È del 2017 la mostra Cortecce a cura di Efisio Carbone, con gli allestimenti di Giorgio Dettori, presso lo Spazio (IN)visibile di Cagliari. Dal 2018 inizia la collaborazione con la Galleria di Marina Bastianello che ha presentato la sua ultima ricerca in una mostra antologica a Mestre a cura di Efisio Carbone oltre a promuovere il lavoro in fiere nazionali e internazionali.

Rosanna Rossi

Nata nel 1937 a Cagliari dove vive e lavora. Compiuti gli studi presso L’istituto d’Arte Zileri di Roma rientra nell’isola nel 1958. Dopo le prime esperienze all’interno delle attività di Studio 58, caratterizzate da una figurazione espressiva, alterata da suggestioni materiche, la sua ricerca si orienta nel decennio successivo verso un’astrazione che fa interagire reminiscenze naturalistiche nell’uso del colore con le connotazioni segniche di matrice informale. Gli sviluppi successivi, pur con periodici s confinamenti nell’ambito del ready-made, mantengono questa ambivalenza progettuale, oscillando costantemente tra un ordine costruttivo di ascendenza concreta e soluzioni materico-espressive dell’astrazione neoinformale. Docente al liceo artistico dal 1968 al 1983, ha insegnato in vari corsi di specializzazione e dal 1984 al 1990 all’Istituto Europeo di Design. Dal 1970 inizia a occuparsi di installazioni permanenti in spazi pubblici. Il suo lavoro continua a scandagliare i linguaggi tradizionali ma all’interno di una figurazione inusitata. In parallelo al proprio linguaggio pittorico identifica nuove possibilità espressive ottenute con materiali poveri, trovati, diversamente utilizzati, scavalca la tradizione precedentemente espressa. Attualmente l’artista lavora con la Prometeo Gallery di ida Pisani che ha presentato le sue opere in una mostra antologica a Milano oltre a promuovere il lavoro in fiere nazionali e internazionali.

La mostra

La mostra si articola in circa 30 opere scelte in venticinque anni di produzione dell’artista. Il percorso espositivo non scandito in ordine cronologico è, a tutti gli effetti, una sorta di mostra antologica.

Per chi conosce l’opera di Vitali sarà importante ritrovare le spiagge italiane assolate e gremite di gente in vacanza (1995), ma sarà anche una sorpresa vedere, per la prima volta in assoluto, gli scatti dei concerti di Jovanotti nel suo ultimo tour italiano del 2019. L’opera di Massimo Vitali attinge esteticamente alla storia dell’arte e non solo a quella della fotografia. Italiano d’origine, anglosassone di formazione e con una visione internazionale e attenta all’evolversi della ricerca d’avanguardia a cavallo tra il secolo scorso e quello attuale, l’artista appare come un fotografo incline a non lasciare tracce nelle sue opere di momenti legati a fatti storici identificabili. Il suo mondo estremamente raggelato e cristallizzato, appare come sospeso in un fermo immagine cinematografico. Non vi sono mai dettagli identificabili con fatti storici attuali, se non per i titoli che, talvolta, rimandano a raduni affollati o a serate di divertimento in discoteca.

La sua opera appare come conseguente a un periodo “illuminista”, dove vengono registrati luoghi che, al di là del loro interesse geografico, paesaggistico o atmosferico, sono immortalati per ciò che sono e “catturati” da un occhio algido e preciso per quantità di dettagli e particolari illustrati fino al parossismo. Le costruzioni vengono restituite in tutta la loro identità e fisicità architettonica; le montagne sono riprese, per quanto impossibile, fino all’ultima roccia e lichene; le spiagge e le dune di sabbia, ammorbidite dai riflessi e dalle ombre percepibili fino all’orizzonte.

Come Canaletto e molta della pittura settecentesca, il suo occhio capta ogni minimo dettaglio e lo trasferisce sulla carta fotografica in modo realistico e analitico. L’atmosfera – per intenderci quella leonardesca dello sfumato e della percezione spaziale della nebulizzazione nell’aria dell’acqua e della polvere – è inesistente nelle sue fotografie. Tutto è definito.

Come in Canaletto le figurine poi recitano parti di una commedia scritta in modo corale, le persone appaiono come dirette da un regista fuori scena e obbediscono ai dettami predefiniti anche se in modo ovviamente inconscio. Tutto è proiettato su uno schermo in cui i protagonisti recitano, come attori istruiti, parti a loro destinate dai fatti contingenti. I titoli delle opere tendono a confondere lo spettatore come se l’artista avesse destinato, alle persone ritratte, parti precise e ruoli da primo attore. In opere come De Haan Kiss (2001), in cui due ragazzi in primo piano si scambiano un bacio, o in Cefalù Orange Yellow Blue (2008), dove vi sono costumi da bagno colorati, è il caso che determina il titolo dell’opera deciso in post produzione dopo un attento riesame della fotografia.
Invece, in opere come Carcavelos Pier Paddle (2016), il ragazzino – che sulla sinistra dell’opera è immortalato per sempre nel suo tuffo acrobatico, riprendendo la grande storia delle immagini sportive, dal tuffatore del notissimo affresco di epoca romana a Paestum fino al Tuffatore (1951) di Nino Miglior – non dà nessun titolo all’opera, pur avendone “pieno diritto”. Ciò non significa comunque che le opere di Vitali siano dei “d’après” ma, al contrario, sono degli originali che continuano la storia della fotografia in modo innovativo e personale

L’opera di Vitali è – dopo oltre trent’anni di lavoro – quella di un grande autore classico, totalmente immerso nella storia dell’arte italiana e internazionale, che lo colloca fra i maggiori artisti dei nostri tempi. Due volumi antologici, editi da Steidl, documentano il lavoro dell’artista con le riproduzioni di tutte le opere esposte.

Biografia

Massimo Vitali nasce a Como nel 1944. Dopo il liceo si trasferisce a Londra dove studia fotografia al London College of Printing. All’inizio degli anni Sessanta inizia a lavorare come fotoreporter e collabora con diverse riviste e agenzie in Italia e in Europa anche grazie all’amicizia con Simon Guttmann, fondatore dell’agenzia Report. Nei primi Ottanta la sua attenzione si sposta sulla fotografia d’arte. In questo periodo inizia a lavorare anche per il cinema e la televisione. Dal 1995 si dedica alla fotografia come ricerca artistica, iniziando la serie delle “Spiagge” sviluppata quale strumento originale per ritrarre il mondo. Viene subito riconosciuto e apprezzato internazionalmente per le sue opere dal formato extra-large di spiagge, discoteche e spazi pubblici in genere, dove individui anonimi vengono ritratti nel loro tempo libero. Sue opere sono presenti in numerose collezioni private come al Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, al Museo Pecci di Prato, al Guggenheim di New York, al Museum of Contemporary Art di Denver, al Centre Pompidou e alla Fondation Cartier di Parigi e in numerosi altri musei in Europa e negli Stati Uniti. La sua abilità nel mostrare paesaggi e masse di gente con dettagli narrativi e formali a volte esaltati da sfondi quasi impalpabili, fa classificare i suoi lavori come “paesaggi umani contemporanei”.

Tutta l’opera di Stefano Di Stasio appare nella sua evidenza pittorica come un decalogo di elementi traducibili e comprensibili. La visione dell’opera appare chiara e decifrabile, i meno avvezzi direbbero che “si capisce”. Poi, immediatamente dopo la presa globale della sua visione, la tentazione è quella di scorporare da essa ogni elemento pittorico e analizzarlo singolarmente, tradurlo in un alfabeto a noi comprensibile e secondariamente ricondurlo alla simbologia della nostra tradizione letteraria, religiosa e mitologica. Tali simboli, più o meno attuali, ne danno, oltre alla lettura formale ed estetica, anche una più profonda e meno evidente che si ricollega immediatamente alla nostra personale cultura ed esperienza.

Tutta la sua opera è informativa, dettagliata nei particolari, evidente nella rappresentazione. Eppure, trovandosi di fronte a questa evoluzione stilistica sempre coerente, si ha la tentazione di porsi nei suoi confronti come un archeologo di fronte ai geroglifici e, non avendo una stele di Rosetta a disposizione per la loro decifrazione, ci si illude di poter interpretare questi mondi, popolati di belle immagini, e dare loro un significato compiuto. Ora, si dovrebbe trovare una chiave interpretativa dell’intero corpus di opere che, da oltre quarant’anni, viene esposta nelle gallerie e nei musei.

Spaventa evidentemente l’analisi di ogni singola opera perché le simbologie contenute e le citazioni, più o meno evidenti, sono troppe per poterne dare una lettura coerente e, più ci si introduce nella loro interpretazione, più ci si ritrova al punto di partenza. Appare, improvvisamente, tutto il corpus come un labirinto – che sia quello di Palmanova o quello di Franco Maria Ricci a Masone ispirato da Borges – edificato con una sola porta d’ingresso ma molteplici vie d’uscita.

Appare quindi evidente che l’interpretazione di ogni singola opera è fuorviante, priva di senso se non legata alla precedente e alla conseguente, in cui, come in un gioco di specchi, come in una catena, ogni opera si riflette e si inanella nell’altra, per trovare corrispondenze veritiere a una sciarada costruita sulle bugie. Ecco allora che la menzogna appare ancor più vera quando viene ribadita e reiterata. La sua costruzione è avvalorata da indizi che trovano riscontro solo in loro stessi e, non appena ci discostiamo, non troviamo più alcun appiglio per leggere e interpretare il dipinto che ci sta di fronte.

L’opera di Di Stasio è come un canto di Sirene, ammaliatore e seducente, ma pericoloso.

L’impulso, alla lettura formale e semantica della sua opera, è tentatore. La necessità di decrittare il significato dei dipinti è una necessità irrefrenabile, la “bella pittura” appare ancora a noi europei come un campo di indagine, dove forma e significato non sono scindibili. Eppure Di Stasio ci obbliga a porsi al di fuori di questo illusorio gioco di erudizione in cui simboli e forme “appaiono” ma “non sono”. Si dovrebbe quindi almeno tentare una lettura a più livelli: formale, simbolica, storica ed estetica.

Le sue opere appaiono all’inizio come composizioni rutilanti, i corpi e il contesto è vorticoso el’apparato stilistico è denso di prospettive sghembe e di corpi contorti, di panneggi che celano ed esaltano le membra e al tempo stesso ripartono la composizione pittorica in molti aneddoti concomitanti. Come in alcune opere della seconda metà del Quattrocento, tra Fiandre e Italia, la storia di santi, ma soprattutto quella di Cristo e contemporaneamente scandita e composta, nell’esiguo spazio di una tavola o di una tela, in modo concomitante e simultaneo: una Via Crucis in cui Gesù si proietta simultaneamente in differenti episodi della sua stessa vita. Di Stasio attinge a piene mani dalla storia dell’arte, soprattutto quella italiana, fonte inesauribile e autogerminante ove il passato, il presente e il futuro sono sostantivi dal significato incomprensibile. Tutto è “adesso” e il prima e il dopo siamo noi, il “durante” è un’opera fermamente statica nella sua ieraticità atemporale e la sua percezione è un attimo di eternità.

(Andrea Busto)

Di fronte alle opere di Stefano Di Stasio nasce sempre in me un’emozione. La sua pittura è vibrante e forte. Si ha la sensazione di essere trasportati in una dimensione fenomenologica parallela, ma anche psicologica e profondamente vera, senza inganni e nascondigli. La sua è una pittura che mette a nudo il nostro io più profondo e che ci accompagna a rivedere e rileggere tutta la storia dell’arte così come l’abbiamo studiata sui banchi di scuola. Mi è capitato di parlare di “paesaggi dell’anima”, dai quali affiora una conoscenza profonda della cultura classica, fatta di simboli e significati allegorici, a volte sorprendenti, come se l’artista, attraverso il lento fluire delle sapienti pennellate, ci svelasse il teatro della vita attraverso un intreccio di quinte, di piani contrapposti e intrecciati, di simultanea rappresentazione dello spazio e del tempo, in cui passato e presente sembrano confondersi nella visione notturna di un sogno che prende corpo sulla tela.

Dopo la sua partecipazione a due Biennali di Venezia e a numerose Quadriennali di Roma, dopo tante esperienze nel campo della ricerca che lo hanno visto protagonista in mostre importanti, possiamo parlare di una lunga carriera sulla quale Di Stasio non si è mai adagiato.

Tra passato e presente si fonda il concetto dell’artista che l’arte è una forza “inattuale”, secondo le parole di Pier Paolo Pasolini, concetto ripreso dal critico Maurizio Calvesi nella presentazione della mostra a Roma nel 1999, Stefano Di Stasio dal 1978 a oggi. Di Stasio parla di una nota stonata nel coro, a proposito dell’arte che non deve essere “attuale” ma trasversale e, quindi, in grado di dialogare con il mondo e con i mutamenti temporali.

Le parole “anacronismo” o “citazionismo”, dunque, sono usate per descrivere, non solo il ritorno alla pittura dopo la generale e diffusa esperienza del Concettuale storico protrattasi fino alla fine degli anni Settanta, ma anche e soprattutto per definire – e oggi possiamo dire “ingabbiare” – sensibilità e poetiche di una rappresentazione fuori dalle mode generate dalla cultura anglosassone, in cui l’esperienza iperrealista, esplosa durante gli anni Settanta, rappresenta la matrice più forte. In tale ambito culturale non sarebbe mai potuto nascere un filone citazionista autentico, senza il poderoso passato plurisecolare che appartiene all’Italia.

(Vittoria Coen)

Biografia

Stefano Di Stasio nasce a Napoli nel 1948, e si trasferisce a Roma con la famiglia nel 1950.
Dal 2000 vive e lavora tra Roma e Spoleto.
All’età di dodici anni, grazie alla madre che lo incontra in teatro, riesce a sottoporre una cartella di disegni a Giorgio de Chirico, nella sua casa di Piazza di Spagna. L’incontro con il maestro sarà fondamentale e dispensatore di buoni consigli. Dopo aver frequentato per un breve periodo l’Accademia di Belle Arti nella classe di Toti Scialoja, decide di proseguire gli studi da autodidatta.
I primi anni di esperienze pittoriche sono prevalentemente in ambito astratto e nel 1977-78 apre assieme ad alcuni amici uno spazio autogestito a Roma chiamato La Stanza. Qui sperimenta un’arte d’installazione extrapittorica, che inventa spazi animati da svariati oggetti, materiali, mobili artefatti, luci, frammenti di pittura e disegni murali. Ne La Stanza, tra gli elementi delle installazioni, espone nel 1978 un autoritratto a olio dal voluto sapore ottocentesco, come spiazzamento al gusto corrente, come gesto provocatore e d’inversione di rotta, rispetto a quella che ormai sembrava l’“accademizzazione” dell’avanguardia. Nello stesso anno espone un secondo autoritratto che viene notato da Plinio De Martiis, il quale lo invita a far parte della sua galleria La Tartaruga, dove espone in personali e collettive dedicate al nuovo ritorno alla pittura.

  • Nel 1982 partecipa ad Aperto ‘82 alla Biennale di Venezia.
  • Nel 1984 viene invitato da Maurizio Calvesi con una sala personale, ad Arte Allo Specchio, mostra centrale della Biennale di Venezia.
  • Nel 1994 inizia la collaborazione con la galleria L’Attico di Fabio Sargentini, dove nello stesso anno espone in una personale e poi successivamente in varie collettive.
  • Nel 1995 partecipa alla Biennale di Venezia con una sala personale nel padiglione centrale. Le gallerie che negli anni si sono occupati del suo lavoro, tra le altre, sono: La Tartaruga, Pio Monti, La Nuova Pesa, Gian Enzo Sperone, L’Attico, Il Polittico, A.A.M., Maniero, Studio Vigato, Alessandro Bagnai, Arts Event’s, Ambrosino e Andrea Arte. Tra il 2001 e il 2004 realizza un intero ciclo pittorico su storie francescane, per la nuova chiesa di Terni, S. Maria della Pace, progettata da Paolo Portoghesi.

Tra i musei nei quali ha esposto, si ricordano: Museo del Risorgimento a Roma (1997, 1999), Palaexpò a Roma (1992, 1999, 2013), Scuderie del Quirinale a Roma (2000), County Museum, Los Angeles, USA (1987), Museum of Modern Art, Ostenda, Belgio (2001), CIAC a Foligno (2009, 2014, 2015).

Il Museo Ettore Fico conserva nei suoi depositi un corpus di oltre 2.000 opere grafiche del maestro. Grandissimo disegnatore Ettore Fico ha sviluppato in tutta la sua carriera artistica un percorso parallelo rispetto all’opera pittorica, producendo serie di disegni e album realizzati a matita, a carboncino, a inchiostro ed a pennarelli. Importante e poco conosciuta, la produzione di opere su carta attraversa cinquant’anni della storia italiana e della vita di Fico senza però fare alcun riferimento ai fatti politici, sociali o personali.

Per Fico la sua opera doveva essere senza tempo, il luogo in cui dialogare e confrontarsi con i suoi “maestri del cuore”. I fogli appaiono come “lettere” indirizzate agli amici artisti, fogli di un diario intimo, appunti di pensieri, come riflessioni intime e poetiche, come appunti erotici e sensuali. Il suo tocco rapido e deciso, descrive la natura, i paesaggi e gli oggetti delle nature morte in modo magistrale. La sua tecnica, poco conosciuta, è fra le migliori e più alte espressioni del ‘900 italiano.

Questa mostra, estremamente raffinata, è realizzata per la conoscenza intima della sua opera e aggiunge un tassello importante per tutti quelli che apprezzano il suo lavoro e vogliono approfondirlo attraverso opere fino ad ora mai esposte. La mostra si rivolge a un pubblico vasto, dal semplice amatore al collezionista, alle scuole primarie fino agli allievi delle accademie.