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Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini, coniugata Verasis Asinari e storiograficamente nota come Contessa di Castiglione (Firenze, 23 marzo 1837 – Parigi, 28 novembre 1899), è stata una nobildonna e agente segreta italiana.
Cugina di Camillo Benso, conte di Cavour, fu considerata tra le donne più belle e affascinanti della sua epoca. La sua attività di spionaggio e diplomazia si sviluppò nel contesto di importanti avvenimenti
dell’epoca: il Congresso di Parigi del 1856, la seconda guerra d’indipendenza e le trattative di pace della guerra franco- prussiana. Per questa attività e per la sua indole anticonformista ebbe fra gli uomini
importanti dell’epoca numerosi amanti, fra cui l’imperatore di Francia Napoleone III.
Il Museo Ettore Fico è lieto di presentare la prima mostra italiana di una delle più grandi figure della storia della fotografia: la Contessa di Castiglione. Questa importante mostra personale comprende oltre cinquanta rari ritratti della contessa dal 1850 al 1890. Diretti e messi in scena dalla stessa Contessa e realizzati in collaborazione con il fotografo di studio Pierre-Louis Pierson, questi “autoritratti” sono alcune delle immagini più straordinarie della storia della fotografia, precursori della fotografia di moda e dell’autoritratto performativo. Oggi viviamo in un mondo di selfie e social media: un mondo Instagram di identità costruite, performance e travestimenti.
Ma prima di tutto questo, prima delle supermodelle e degli influencer – 150 anni fa – una delle figure più radicali del XIX secolo ha aperto la strada a nuove forme di fotografia di moda e concettuale: l’autofiction. In centinaia di ritratti prodotti in un periodo di decenni, la Contessa ha messo in scena scenari e interpretato ruoli diversi, per presentare personaggi e personalità diverse e per riflettere identità multiple, fluide e non fisse. Nonostante decenni di attività, le fotografie della Contessa sono incredibilmente rare in quanto sono state realizzate pochissime stampe che, in vita, aveva scelto di non divulgare.In effetti, le principali mostre del suo lavoro si sono svolte solo alla fine del XX secolo al Musée d’Orsay di Parigi nel 1999 e poi al Metropolitan Museum di New York nel 2000. La maggior parte
del suo lavoro è ora nella collezione del Metropolitan Museum di New York. La mostra presenta alcune delle immagini più famose della contessa, nonché una sua squisita fotografia dipinta, di recente scoperta, che sarà esposta per la prima volta.

La mostra comprende stampe d’epoca e stampe appositamente realizzate nel 1900 per il suo grande
ammiratore, il poeta simbolista Robert de Montesquiou, amico/nemico di Proust, e primo dandy della storia, che ha trascorso tredici anni della sua vita a scrivere la sua biografia della Contessa e pubblicata come La Divine Comtesse nel 1913. Questa è una mostra che ricollega la figura della Contessa alla città di Torino in cui ha vissuto molti anni, della sua vita come stretta collaboratrice del cugino il conte di Cavour e del re Vittorio Emanuele II per promuovere l’unita d’Italia in Francia. Divenuta l’amante di Napoleone III la Contessa oltre a essere stata una delle donne più desiderate del suo secolo, è stata anche un importantissimo “ingranaggio” per la riunificazione risorgimentale del nostro Paese. Pierre-
Louis Pierson è probabilmente il più “contemporaneo” di tutti i fotografi del diciannovesimo secolo in quanto “strumento” della volontà della Contessa al pari di altri al servizio di grandi artisti contemporanei come Armin Linke per Vanessa Beecroft. Egli si inserisce a pieno titolo nel novero degli artisti fotografi e pionieri della fotografia contemporanea come William Henry Fox Talbot, Roger Fenton, Julia Margaret Cameron, Charles Negre e Gustave le Gray, ma nessuno è stato più influente o rilevante, per i fotografi di oggi, come la Contessa di Castiglione. La Contessa è senza dubbio il fotografo più radicale e contemporaneo del diciannovesimo secolo. Oggi, la sua rilevanza è ovunque. Si trova all’inizio di una linea di autoritrattisti concettuali, performativi e inventivi come Claude Cahun, Francesca Woodman, Hannah Wilkie, Jo Spence, Sophie Calle, Gillian Wearing, Cindy Sherman e Tracey Emin, ed è fonte d’ispirazione per numerosi giovani artisti, tra cui Zanele Muholi e Heather Agyepong. L’opera è incredibilmente rara, il che rende questa un’importante opportunità espositiva tale da essere un evento imperdibile per Torino, per gli appassionati di fotografia storica e contemporanea e per gli amanti della moda e del costume. I ritratti provengono da tre periodi principali: 1856–57, 1861–67 e 1893–95 e
la mostra ci accompagna in un viaggio che va dalla Contessa nel fiore degli anni – vestita e feticizzata come la donna più bella della sua età, attraverso immagini in cui ha tentato di rivendicare i trionfi precedenti – a immagini tardive cariche di emozione che suggeriscono, non solo lo sbiadimento della sua bellezza, ma anche il trauma psicologico di non essere più desiderabile e ricercata. Dopo le maschere glamour delle sue prime fotografie, queste strazianti immagini tardive e successive forniscono un ritratto devastante della perdita della bellezza e dell’inaccettabile invecchiamento di una “diva” ante-litteram.

Il percorso espositivo della mostra di “Nino Migliori Variazioni sulla fotografia” si snoda attraverso più di settanta anni di produzione artistica con un focus originale che raggruppa le opere in riferimento agli elementi determinanti nel processo creativo. Abbandonando la classica configurazione cronologica o la consueta divisione per approccio concettuale, sperimentale o realista, il percorso vuole evidenziare le infinite variazioni sulla fotografia realizzate da Nino Migliori grazie agli elementi del tempo, del segno e dello spazio.

Ciò che di straordinario c’è nella sua opera è la capacità di andare oltre le consuetudini del linguaggio fotografico per indagare ogni possibile variante e scardinare le formule del conosciuto. Immaginazione e curiosità lavorano tutt’oggi nella mente di Migliori, una mente forgiata nelle frequentazioni dell’arte informale e nell’epoca del passaggio dalla fotografia come documento alla fotografia come espressione artistica.
Ogni lavoro rappresenta un modo di sovvertire lo scibile fotografico e affrontare nuovi cammini, nuovi utilizzi, forzando fino all’impossibile ciò che lo strumento della fotografia porta in sé. Il concept della mostra vuol far entrare il visitatore nella mente poliedrica e rivoluzionaria di Migliori, accompagnandolo nel percorso espositivo come in una visita guidata tra i meandri del pensiero dell’artista.

LA MOSTRA

Tutti gli elementi primari rientrano comunque nel suo processo creativo. Nulla di nuovo nell’impianto di partenza, cioè: luce, spazio e tempo. Gli strumenti del mestiere canonici (fino a vent’anni fa)
cioè: pellicola, carta sensibile, sviluppo, fissaggio, acqua, calore. E, infine, la perizia tecnica di base, cioè: chimica, fisica, ingranditore, camera oscura, manualità, controllo. Gli ingredienti della ricetta sono sempre gli stessi, ma nelle mani di un rivoluzionario come Nino Migliori conducono a esiti sorprendenti. La combinazione dei fattori viene, infatti, elaborata da una mente sconfinata, che ascolta il sé in tutte le sue modulazioni, e recepisce gli stimoli esteriori come un inno alla vita.

E adesso pensate al laboratorio di un alchimista, ossessionato dal potenziale espressivo dei materiali che ha a disposizione, ma anche compulsivamente interessato alle varianti inesplorate del linguaggio che con questi coefficienti si può significare. La convergenza fra queste due pulsioni irrefrenabili spinge contro le pareti delle norme della fotografia, rompe i muri accademici, costruisce ponti, connette gli opposti, cerca l’impensabile. Associate, infine, tale sillogismo a un artista come Nino Migliori che, ineluttabilmente, aggiunge senso e incanto a tutto ciò che tocca. La sua immaginazione è nutrita dalla curiosità, la sua visione è fertilizzata dai saperi, il suo pensiero è audace e il suo spirito è accogliente.

Ecco che questa ricetta ora è tanto completa, quanto imprevedibile nei suoi esiti. L’unico modo per venirne a capo è osservare la produzione artistica che ne consegue. E lo faremo con riferimento alla mostra Variazioni sulla fotografia. Un titolo che vuole suggerire i tanti mondi esplorati da Nino Migliori e i sublimi risultati di settant’anni di ricerca.

Sue opere sono conservate presso: MamBo – Bologna; Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea – Torino; CSAC – Parma; Museo d’Arte Contemporanea Pecci – Prato; Galleria d’Arte Moderna – Roma; Calcografia Nazionale – Roma; MNAC – Barcellona; Museum of Modern Art – New York; Museum of Fine Arts – Houston; Museum of Fine Arts – Boston; Musée Reattu – Arles; SFMOMA – San Francisco, The Metropolitan Museum of Art e MOMA – New York; Maison Européenne de la Photographie – Parigi ed altre importanti collezioni pubbliche e private.

Franco Garelli fu amico e collaborò con Lucio Fontana, il gruppo Gutai, Pinot Gallizio, il Gruppo Cobra, lungo la linea di una ricerca internazionale. Presente alle Biennali di Venezia del 1948, 1954 e 1966 e alle Quadriennali di Roma del 1951-52 e del 1955-56, è stato, con la sua arte e i suoi contatti personali, un importantissimo ambasciatore della cultura italiana e torinese nel Mondo che culminò nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1966 con i “tubi in lamiera” tra Spazialismo, Pop Art e Arte Povera. Fu anche tra i protagonisti di Spoleto 1961 – Sculture nella città, uno fra i più importanti eventi per la scultura internazionale del XX secolo in Italia.

LA MOSTRA

Garelli è stato oggetto dell’attenzione dei maggiori critici del Novecento da Venturi a Crispolti, da Tapiè a Dorfles. Collaborò con i maggiori galleristi del suo tempo come Carlo Cardazzo (galleria del Cavallino a Venezia e galleria del Naviglio a Milano), con Palazzoli della galleria Blu di Milano, la galleria Stadler di Parigi, la Marta Jackson Gallery di New York.

Fu un intellettuale del Novecento, medico di guerra e di professione, insegnante di Anatomia presso l’Accademia Albertina di Torino fino a quando cominciò a dedicarsi sempre più ed esclusivamente alla propria arte, cercando in essa, con ostinazione, un proprio percorso lirico ed estetico, una personalità capace di entrare in empatia con le ricerche più vive della sua contemporaneità.

La sensibilità e l’impegno di medico uniti alla sensibilità artistica diedero vita a una produzione di opere in cui l’uomo e la sua “forma” sono sempre al centro dell’opera, ciò che fu definito da Crispolti “l’umanesimo tecnologico” di Garelli. Garelli muore a Torino nel 1973 a causa di una malattia degenerativa.

La mostra al Museo Fico a cura di Andrea Busto si pone come la prima in cui vengono proposte opere mai esposte precedentemente, frutto di una ricerca approfondita e pluridecennale, fra i collezionisti privati e pubblici. Il catalogo, a cura di Andrea Busto, è frutto di un’inedita campagna fotografica e di nuove e approfondite ricerche.

Nell’ambito della mostra sono previsti percorsi di approfondimento intorno ai monumenti pubblici realizzati da Garelli: dalla celebre cancellata in ferro della sede Rai al monumento ai Caduti di Beinasco. Il progetto espositivo porterà all’attenzione del pubblico e alla sua conoscenza un tesoro cittadino sconosciuto attraverso una mappa atta alla scoperta delle opere che Garelli ha realizzato sul territorio.

Il Museo Ettore Fico presenta Il vuoto addosso, la nuova performance di Ruben Montini con un testo a cura di Elsa Barbieri.

Sette anni dopo “Think of me, sometimes”, realizzata insieme all’ex compagno, l’artista tedesco Alexander Pohnert, Ruben Montini torna al Museo Ettore Fico con “Il vuoto addosso”, reenactment della precedente performance.

La nuova azione sarà un tentativo, estremo come è nella natura della sua pratica performativa, di ricostruire l’immagine di quell’abbraccio che nel 2015 l’aveva stretto fino allo sfinimento.

In bilico tra pittura e fotografia le opere di Patrizia Mussa, riportano il mezzo fotografico e la tecnica della coloritura a mano a una dimensione atemporale.

Il fare minuzioso e la tecnica della coloritura a mano a una dimensione atemporale, il fare minuzioso del riempimento degli spazi stampati con delicatissime sfumature di colori pastello, infondono nello spettatore uno straniamento che determina nella sua osservazione uno stacco dal presente per ricondurre il manufatto in una sfera atemporale e irreale.

Troppo a lungo l’opera pittorica di Ettore Fico è stata ingiustamente confinata entro i limiti ristretti dell’arte regionale piemontese legata a stilemi post-casoratiani o inversamente tardo-futuristi.

Un afflato anticampanilistico, vitale ed europeo travalica la sua opera fin dagli esordi pittorici da autodidatta o nell’atelier accademico del maestro Luigi Serralunga.

Attraverso un corpus assai vasto di oli, tempere, acquerelli, pastelli, incisioni e disegni, che conta alcune migliaia di opere, Ettore Fico ci parla di un mondo intimo e privato, pochissimo popolato, abitato più che dalle persone, dagli oggetti del suo studio, dai fuori del suo giardino, dalle modelle dall’atelier, dagli animali domestici che hanno sempre un nome e da impressioni coloristiche, sempre in bilico tra realtà e irrealtà.

Per i 12 anni del “Premio Ettore e Ines Fico” che il museo celebra con una sorta di miscellanea coinvolgendo le diverse collezioni conservate nei suoi depositi – per volontà diretta o indotta – che vanno dal lascito Luigi Serralunga, dal fondo di opere di Ettore e Ines Fico, dalla Donazione Renato Alpegiani, dalle collezioni dei Premi del MEF – destinati ai giovani artisti – e, infine, a una parte della collezione del Museo costruita negli anni della resistenza.

Luca Pignatelli presenta una mostra antologica composta da cinquanta opere che coprono l’arco della sua intera carriera, una sorta di “teatro della memoria” frutto di un eterogeneo archivio di tematiche personali e collettive di epoche antiche e contemporanee tutte immagini ricorrenti nella sua vasta produzione.

Le opere, installate nelle sale al piano terra del museo, saranno alternate a creazioni site-specific, prodotte in particolare nell’ultimo decennio in cui predomina l’astrazione sulla figurazione.

Questa fase più recente del lavoro di Pignatelli, che si potrebbe definire “aniconica”, è fortemente caratterizzata da campiture monocrome e da colori terrosi e sordi su cui però predominano i rossi, da quello cinabro ai verniglioni squillanti. Verranno comunque presentate tutte le tematiche che lo hanno reso celebre dai grandi panorami del mondo industriale del primo Novecento alle prime città meccanizzate, dalle ciminiere con i fumi scuri ai paesaggi urbani sempre più congestionati, dagli aerei da combattimento alle navi da guerra.

Saranno inoltre presenti in mostra le figure appartenenti alla cultura classica della Grecia antica e della Roma imperiale, teste scultoree, statue e divinità mitologiche.

La mostra è curata da Luca Beatrice e realizzata in collaborazione con la galleria Poggiali (Firenze, Milano, Pietrasanta). In catalogo è pubblicato un lungo dialogo fra l’artista e il critico.

Alessandro Scarabello è in assoluto uno dei giovani talenti italiani che può dialogare, in modo paritario, con le avanguardie internazionali contemporanee ed è stato il vincitore nel 2020 del “Premio Ettore e Ines Fico”, che ogni anno viene attribuito dal Mef durante Artissima a un artista che si sia particolarmente distinto sulla scena internazionale.

La mostra “Repetition kills”, curata da Andrea Busto direttore e presidente del Museo Ettore Fico, è composta da una ventina di grandi oli su tela che rappresentano e testimoniano come negli ultimi anni l’artista abbia saputo coniugare alle forme fantasmatiche di ectoplasmi pittorici la storia e la cultura contemporanea.

Evocazioni al limite dell’astrazione, Scarabello convoglia nelle sue opere un’impressionante quantità di informazioni estetiche che vanno da Balthus a Luc Tuymans, da Scipione all’ultimo Tiziano, in cui tutto si stratifica in una stesura al confine tra figurazione e astrazione.

Nato nel 1941 nel Michigan, vive e lavora a New York.

Il Museo Ettore Fico è lieto di presentare la prima mostra antologica dell’artista americano John Torreano. Il percorso artistico di John Torreano inizia in modo significativo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta in un clima post-bellico e in un fermento culturale occidentale che genera e elabora importanti istanze sociali ed economiche. L’inarrestabile crescita del prodotto interno lordo americano di quegli anni, la Guerra Fredda e quella del Vietnam, la nascita del consumismo ma anche del benessere, la rivoluzione nera di Martin Luther King e quella di Kennedy, sono gli scenari in cui l’artista vive ed da vita alla sua poetica personale.

Fin da subito il suo interesse è indiscutibilmente rivolto alla pittura come mezzo tradizionale e utilizzato però secondo estetiche e tecniche contemporanee. La sua chiave espressiva si muove in modo molto libero e si avvale di forme e formalismi in voga in quel tempo. Sono evidenti fin dagli esordi i suoi interessi preponderanti: lo spazio, la campitura e le stesure coloristiche, i soggetti senza ombra come sospesi e ritagliati nel vuoto, la ricerca sulla tridimensionalità mutuata sia dall’optical che dal pop. Inoltre, il quadro come oggetto/forma tridimensionale, è alla base di un approfondimento stilistico che sarà per lui motivo di indagine fino a oggi.

John Torreano arrivò a New York alla fine degli Anni Sessanta, in un periodo di esplosiva creatività dove nuove generazioni di artisti iniziavano a proporre approcci sperimentali tanto alla forma quanto al contenuto. La loro enfasi su materiali nuovi, immaginando applicazioni tradizionali, e il loro veemente rigetto dell’astrazione gestuale che li ha preceduti costituì le fondamenta del Minimalismo, una metodologia che enfatizzava la geometria, le forme ridotte, e la materialità. Una figura chiave in questa generazione di artisti fu Richard Artschwager, e fu proprio un incontro fortuito con lui nel 1967 che ispirò Torreano a recarsi a New York City.

“All’epoca insegnavo all’Università del Sud Dakota, a Vermillion, e Richard fu invitato in qualità di artista ospite. Non avevo mai visto i suoi lavori prima, e immediatamente vi sentì una connessione. Amavo l’idea che un quadro potesse essere anche una scultura ed un disegno allo stesso tempo. A quel tempo, tutti coloro insieme a cui insegnavo sarebbero andati sulla West Coast o la East Coast. Io pensai che, se Richard era a New York, allora era lì che io volevo essere”.

Atterrato a New York nel 1968, Torreano fece amicizia con un circolo di artisti che condividevano il suo entusiasmo e la sua ambizione. La sua prima casa fu un loft al numero 81 di Greene Street a Soho, allora centro del mondo artistico di New York grazie alla facile disponibilità di grandi spazi sgombri (anche se spesso privi di tubature e con riscaldamenti rudimentali).

“Gli artisti che conoscevo al tempo – Ron Gorchov, Bob Grosvenor, David Reed, Bill Jensen, Lynda Benglis, e Jennifer Bartlett – stavano lavorando su svariati concetti riguardo che cosa potesse essere l’Arte. Questo era ciò che rendeva così eccitante lo stare lì. Eravamo proprio all’inizio della frattura del concetto di stile e del rigetto dell’idea che si doveva appartenere ad una delle religioni primarie: Figurativo, Espressionismo Post-Astratto, Pop, Minimalismo, Campo Colore, e Concettualismo. Eravamo tutti parte di un eclettismo emergente che continua a fratturarsi anche oggi”.

I suoi coinquilini erano il concettualista Steve Kaltenbach e il pittore murale architettonico Richard Haas. Alcuni dei suoi vicini erano amici dai tempi dell’Università, alla Ohio State University. Uno di loro, Ron Clark, invitò Torreano a presentare una mostra personale al Whitney Independent Study Program, recentemente costituito e allora posizionato in un edificio industriale in Cherry Street, nel Lower East Side.

Nel 1972, Trudie Grace, direttrice artistica, e Irving Sandler, critico, fondarono l’iniziativa di mostre alternative chiamata Artists Space. Collocata al numero 155 di Wooster Street a SoHo, si impose velocemente come un luogo devoto al lavoro di artisti emergenti. Una recensione della Mostra tenuta nel 1979 alla Galleria, scritta da John Russell per il The New York Times, sottolinea la significatività della location per il lancio di artisti variegati come Laurie Anderson, Scott Burton, Judy Pfaff, e Torreano. Tutti loro parteciparono sin dal primo momento, e tutti loro divennero prominenti nel mondo dell’arte di New York e non solo. Un aspetto che definiva l’Artists Space era che le Mostre erano organizzate da Artisti che sceglievano i lavori di altri Artisti, incoraggiando così un sistema di peer mentoring in un tempo in cui le opportunità nelle gallerie commerciali o nei musei tradizionali erano ancora relativamente poche.

Nel 1974, Chuck Close seleziona Torreano per la sua prima mostra personale a New York. I quadri che Torreano esibì all’Artists Space – tutti i prodotti nel 1973 e comprendenti ad esempio Red Bulge, Red Star, and Outer Space — enfatizzarono il suo focus sul definire e dare forma ad immagini dallo spazio interstellare, rinforzando il paradosso tra la materialità e l’illusione.

Le tele erano incrostate con impasti pesanti di pittura a olio e gemme decorative di plastica e vetro vendute commercialmente, delle “stelle” sparse, diversamente dalle opere precedenti in cui i punti erano, invece, dipinti. L’illusione di spazi vasti e vuoti era smentita dal contenimento del lavoro dentro cornici caratterizzanti e dipinte, fatte con tasselli arrotondati. La pesantezza delle cornici ispirò un’altra innovazione.

“I quadri-colonna emersero al tempo in cui stavo creando quadri con enormi cornici arrotondate, nei primi Anni Settanta. Mi immaginai due cornici arrotondate unite a formare una colonna semicircolare. Questa nuova invenzione mi diede l’opportunità di avventurarmi più profondamente nella mia esplorazione riguardo la percezione e la relazione tra l’osservatore e l’oggetto.”

Le colonne di Torreano affermavano uno spazio illusorio, estendendo la sua pittura oltre il muro, pur rimanendovi legata, e facendo ciò, sconvolsero l’enfasi che la pittura astratta poneva su un piano piatto ed espanso. Negli anni Settanta il suo lavoro assume una posizione e una personalità definita: tele con cornici o tavole di legno sempre con cornici, molto fisiche e molto presenti, spesso, se non sempre, arrotondate ai bordi e il tutto dipinto da colori monocromi più o meno materici, più o meno stesi fino a ricoprire tutta la superficie della tela e della cornice. È una prassi che aveva suggerito Seurat in molte sue opere che, non pago dei limiti pittorici imposti dai bordi classici della tela, aveva invaso letteralmente anche lo spazio della cornice che era parte e limite contemporaneamente dell’aldilà e dell’aldiqua del quadro. L’opera diventa in tutto e per tutto un oggetto tridimensionale, scultoreo, minimalista. Le superfici, soprattutto nei lavori dei primi anni Settanta, sono fluide e si percepisce il segno del pennello che, in una prima e sola stesura, lascia le tracce dei peli intrisi di colore. Blu e azzurri e altri colori debordano dalla tela alla cornice e piccoli punti vengono disseminati su tutta la superficie in un caos eccitato e vitalistico.

Nella seconda metà del decennio, Torreano aumenta la magmaticità del colore, ne preserva la densità data dal segno della stesura e “rivolta” le cornici dall’interno all’esterno, per farle assumere una forma estroflessa e morbida, fino a dare all’oggetto l’aspetto di un cuscino su cui si sono posati i cristalli. D’ora in avanti le pietre preziose, le forme lucide e rilucenti si sommeranno una all’altra sempre più a formare parte integrante della pittura e a volte a sostituirla.

È verso la fine del decennio tra il 1977 e il 1979 che l’artista sistema le gemme e i puntini in modo da formare degli agglomerati e delle nebulose. A poco a poco la “polvere di stelle” si accorpa a riformare nuclei rotanti o buchi neri dell’universo da cui provengono. Le pietre preziose lasciano il posto a importanti concentrazioni di punti monocromi o multicolori che illuminano un cosmo buio e silenzioso.

“L’uso delle gemme iniziò simultaneamente al mio crescente interesse nelle stelle e nello spazio profondo. Nel 1969, stavo facendo quadri punteggiati e avevo bisogno di una risorsa più complessa rispetto a quanto proveniva dalla mia testa, quindi cominciai a fare fotografie alle stelle. Le fotografie mi portarono a leggere libri riguardo lo spazio ed i concetti dello spazio. Presto iniziai a fare connessioni tra lo spazio profondo e lo spazio della pittura .”

Il percorso creativo di Torreano è scandito fin dagli anni Settanta dalla produzione delle Colonne. La loro realizzazione arriva fino a oggi e ogni periodo è ben riconoscibile proprio dalla tipologia di pittura o intervento adottato dall’artista per la loro realizzazione. Alcune sono decisamente minimaliste, appena dipinte e con pochissimi inserti cromatici, altre invece abbondano di oggetti smaltati, dorati, di gemme e di cristalli, di pittura sovrabbondante o dilavata, da concrezioni pittoriche quasi aggettanti fino a paste che assomigliano a chewing-gum. Questo light motive della colonna è frutto dell’evocazione cosmogonica dello spazio.

La colonna e gli obelischi come simboli fallici ancestrali del pene, sono da sempre considerati come oggetti che segnano la vicinanza dell’uomo al cosmo, la loro verticalità ricongiunge la terra al cielo e di conseguenza l’uomo a dio. La forma delle colonne di Torreano evoca fortemente anche quella del linga (simbolo fallico considerato come presenza di Shiva) che rappresenta in termini assoluti il Trascendente, vi è perciò una sacralità erotica in questi “falli” agghindati a festa in cui è evidente una ritualità fra pagano e divino.

Lo sguardo dello spettatore viene catturato e ingannato dalle opere a causa della rifrazione dei cristalli. Gli spostamenti innanzi ai dipinti, dove la percezione fissa dell’immagine è resa impossibile a causa di questa frammentazione, è parte integrante della volontà dell’artista. In questo modo l’osservatore diventa parte integrante dell’opera con il movimento del suo corpo, partecipando alla creazione “multipercettiva” e divenendo strumento ottico/performativo.

I cristalli di plastica specchiante, rifrangendo in modo differente la luce, giocano con la retina dello spettatore, cambiando la percezione cromatica dell’oggetto. Gli sfavillii delle false gemme, sotto differenti illuminazioni, mutano la natura stessa dell’oggetto che risulta, proprio in base alle fonti luminose che lo irradiano, più o meno ricco, più o meno luminoso, più o meno riverberante.

La base pittorica delle differenti “colonne”, su cui si incastrano le gemme, è di per sé un trattato pittorico su come la materia, distribuita differentemente sulla superficie del legno, a sua volta più o meno assorbente, possa risultare opaca, lucida, grumosa, liscia, increspata, spatolata, pennellata e così all’infinito per tutte le innumerevoli possibilità che l’acrilico, l’olio o altri mezzi possono esprimere attraverso le infinite mescolanze chimiche naturali o artificiali. Il supporto su cui interviene l’artista può essere scuro o chiaro, leggero o pesante, spesso o sottile, come se fosse un tessuto realizzato con seta, cotone, lana o altri materiali tessili a cui, sarte e ricamatrici provette avessero applicato uno strato di gemme multicolori dandoci una fragranza ottica vitalistica e positiva. In questi due aggettivi potremmo perciò riassumere la produzione passata e recente di John Torreano che nel suo percorso creativo è stato – ed è – anche coerente e determinato.